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Mese: Dicembre 2018

Dischi di Natale 2018: Carrà o Clapton?

Ecco a voi i “Christmas Album” del 2018. La Raffa nazionale, Eric Clapton, John Legend. E i miei album natalizi del cuore.

di Diego Perugini

Si fa presto a dire Buon Natale. Un po’ meno in musica. Perché realizzare dei “Christmas Album” importanti è impresa improba. C’è sempre il rischio di cadere sulla buccia di banana del kitsch, del melenso, del banale, dell’ipocrita. E, quindi, di sfornare dischi brutti, inutili, falsi, noiosi e via criticando. Difficile trovarne di ispirati, ieri come oggi.

“Ogni volta che è Natale” di Raffaella Carrà

E com’è andata per questo 2018? In Italia, poca roba. In pratica solo “Ogni volta che è Natale” dell’icona nazionale Raffaella Carrà, che cantante vera non è. C’è l’inedito “Chi l’ha detto”, orecchiabile e piacione, moderno al punto giusto, con tanto di videoclip ruffiano e politicamente corretto.

Ci sono ardite vette di kitsch come “Happy Xmas” di Lennon in versione valzer o “Hallelujah” di Cohen in chiave lirica. Lei avrebbe voluto anche una “Feliz Navidad” stile reggaeton, ma è stata provvidenzialmente bloccata dalla casa discografica. Comunque alla Carrà, per tutto quel che ci ha dato, perdoniamo qualsiasi cosa. O quasi.

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Il mio Calcutta, “Evergreen” e il nuovo tour

In occasione del nuovo tour, un ritratto del numero 1 dell’it-pop contemporaneo. Signori e signore, ecco a voi Calcutta e le sue canzoni. Perché mi (ci ) piace così tanto e altre riflessioni sparse.

di Diego Perugini

Calcutta concerto di Verona (Giuseppe Maffia)

Con Calcutta m’è capitata una cosa strana, inusuale, che non mi succedeva da tempo immemore: innamorarmi di una canzone. Un giorno, quasi per caso, sul web mi sono imbattuto in “Orgasmo”. Video di romanticismo quotidiano, situazione cinematografica, melodia struggente, parole non banali. “E’ un sacco che non te la prendi/è un sacco che non mi offendi/e che non sputi allo specchio per lavarti la faccia”. Non riuscivo a smettere d’ascoltarla, me la sono addirittura salvata sullo smartphone, neanche fossi un adolescente in fregola invece che un ultracinquantenne con alle spalle stagioni e stagioni di rock e dintorni. E mi sentivo un po’ rincoglionito, lo confesso.

Fino all’arrivo di “Pesto”, che ho atteso sin anche con un filo d’ansia. Sicuramente sarà una delusione, mi dicevo. E all’inizio, infatti, ci sono rimasto un po’ così. “Esco o non esco?/fuori è caldo ma è normale ad agosto” fino a quel “Ueee deficiente” del ritornello. No, non è all’altezza di “Orgasmo”, lo sapevo. Ma già al secondo ascolto vacillavo e cambiavo idea, complice un altro video semplice e ad effetto. Quindi, “Paracetamolo”, stesso discorso. Primo ascolto deludente, poi crescita costante e inarrestabile, con citazione di merito per l’“incipit” geniale (“Lo sai che la Tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000”) e quel “ponte” sospeso e poetico (“Canto di gabbiano dentro la mia mano…”).

Le canzoni di “Evergreen”, l’ultimo album

Infine, il disco completo, “Evergreen”, una mezz’oretta di pop d’autore del nuovo millennio. Mi è molto piaciuto. Non tutto al top, forse, ma ci sono alcuni pezzi memorabili. Come “Briciole”, uno dei miei favoriti, dove ci ritrovi la tradizione dei cantautori italiani anni 60 e arrangiamenti che rimandano alla lezione di Brian Wilson. O “Dario Hubner”, struggente riflessione sul tempo sottratto agli affetti veri. Ma anche la psichedelia circense di “Rai” e la vena più rock, quasi battistiana, di “Kiwi” con un altro intrigante passaggio nel ritornello (“Mondo cane, tu fatti gli affari tuoi”).

Il segreto di Calcutta. Ma perché mi (ci) piace così tanto?

Ma qual è il segreto di Calcutta e perché mi (ci) piace così tanto? Probabilmente perché sa mescolare mondi diversi con grande abilità e spontaneità. A spulciare i suoi brani senti il peso di tanti ascolti del passato, dai già citati Battisti e Brian Wilson, sino a Dalla, Carboni, Venditti e così via, una sensibilità rétro mediata col gusto indie contemporaneo. Il tutto con un linguaggio semplice e immediato, fra immagini, guizzi verbali e giochi di parole inattesi e spesso sorprendenti. Niente di costruito o paludato, storie d’amore quotidiano raccontate sul filo di una malinconia latente. E vincente. In più ha una voce particolare, non bella in senso classico, ma perfetta per raccontare il suo mondo.

Calcutta, “Evergreen”, Bazzano 
Quattro chiacchiere con Calcutta

Siccome m’era piaciuto così tanto, ho voluto incontrarlo. Su di lui ne avevo lette tante, che era scontroso, laconico, scostante. Chissà… Dopo un paio di settimane di mail col suo manager, fisso finalmente un’intervista per “Metro”, il free press con cui collaboro. E mi ritrovo davanti un ragazzo in calzoni corti e maglietta casual. E’ sulle difensive, ma si scioglie quando capisce di aver di fronte uno che del gossip se ne frega. E che, soprattutto, le sue canzoni le ha ascoltate per bene.

Gli chiedo del successo piombatogli addosso. Si schernisce, ma si capisce che è un po’ a disagio: “Mah, io cerco di fare le cose in maniera naturale, non rifletto molto su quel che accade. Non ci penso, ma vedo di tenere lontani i demoni dalla mia testa, a partire dalla pigrizia”.

Poi parla del disco: “In realtà doveva chiamarsi Classic, poi ho virato su Evergreen. Rappresenta il mio spirito rétro, amo gli anni 60, sono una fonte d’ispirazione. C’entra un po’ anche mio papà, che è musicista, suona cose napoletane classiche. A me piace la leggerezza, il gioco, ma in senso positivo, amo trovare un equilibrio di parole. Scrivo quando viene il momento giusto, ma ora sento di volere qualcosa di più. Vorrei parlare di cose meno contingenti, uscire dalle storie d’amore per affrontare argomenti più universali”.

Calcutta, “Evergreen”
Testi autobiografici. Tra romanticismo e malinconia

Nei testi tanta autobiografia, come in “Rai”, ispirata dal sofferto passaggio tv a “Quelli che il calcio”. Dove il nostro, a disagio nel clima goliardico della trasmissione, ha lasciato la scena in fretta, saltando a piè pari l’incombenza dell’intervista post-esibizione: “C’era un po’ di tensione, ma forse è anche un po’ colpa mia. Io non leggo i giornali, non guardo la tv, non so come ci si comporta in uno studio. E quella volta è andata così. Ma alla fine niente rancore, per me la Rai è come una nonna che ti vuole bene. Però, è vero, ho una paura fottuta dei giornalisti, non so mai bene come comportarmi. Per questo, a volte, dicono che sono scontroso, che non parlo. Dipende tutto dall’empatia che si crea con chi ho di fronte. Di te, per esempio, so che posso fidarmi. Sei venuto qui con una maglietta dei Beatles, si vede che lo fai per passione” dice indicando la mia t-shirt dedicata ai fab-four.

Sorrido e confermo. Gli dico che mi è piaciuta molto la sua “Dario Hubner”. E anche qui c’è della vita vissuta: “Ho letto un articolo su questo calciatore, che per star vicino alla moglie ha rinunciato a un ingaggio nella Premier inglese ed è rimasto a giocare in provincia. In un momento di malinconia mi ci sono rivisto: ero in giro per lavoro e stavo trascurando una persona importante. Per il futuro mi piacerebbe mettere un freno a questa vita vagabonda, magari sposarmi”.

Calcutta & Elisa

Alla fine mi confida persino di una storia d’amore a cui tiene molto, con tutti i dubbi, le paure e le speranze di quando sei all’inizio e non sai come andrà a finire. Glielo chiederò al nostro prossimo incontro, se mai accadrà. Intanto le cose gli vanno bene. I due live estivi negli stadi, il film “Tutti in piedi”, la canzone scritta per Elisa, “Se piovesse il tuo nome” (ora uscita anche in duetto, assai meglio). L’altra sera l’ho visto anche più disinvolto e ironico in tv nel programma di Fabio Fazio. E, da gennaio, il tour nei palazzetti. Ecco le date. Ci vediamo là?

Ed ecco il nuovo tour

17 gennaio 2019 – Ancona – PalaRossini (data zero)
19 gennaio 2019 – Padova – Kioene Arena
20 gennaio 2019 – Milano – Mediolanum Forum
21 gennaio 2019 – Milano – Mediolanum Forum
23 gennaio 2019 – Bologna – Unipol Arena
25 gennaio 2019 – Bari – Palaflorio
26 gennaio 2019 – Napoli – Palapartenope
5 febbraio 2019 – Roma – Palalottomatica
6 febbraio 2019 – Roma – Palalottomatica
9 febbraio 2019 – Acireale (Ct) – Palasport

Bryan Ferry, “Bitter-Sweet”

Un gioiellino jazzato dalla voce di velluto dei Roxy Music. Fuori dal tempo e dalle mode. Per un ascolto piacevolissimo.

di Diego Perugini

Il nuovo album di Bryan Ferry, “Bitter-Sweet”

 In questo tempo di Mengoni, Ramazzotti, Pausini, Antonacci, X Factor e compagnia poppante, passa praticamente inosservato “Bitter-Sweet”, il nuovo album di Bryan Ferry.  Sì, proprio l’ex leader dei Roxy Music, il dandy per eccellenza, la voce di velluto di tanti classici di rock e dintorni. Nonché uno dei massimi interpreti di cover, uno dei pochi capaci di rileggere con classe sopraffina successi di ieri e di oggi.

A dirla tutta, una qualche scusante per questo totale disinteresse dei media (almeno in Italia) c’è. Perché non si tratta di un vero e proprio nuovo disco. Innanzitutto è attribuito a Bryan Ferry and his Orchestra, ensemble con cui il nostro aveva inciso nel 2012 “The Jazz Age”, un lavoro strumentale con curiose riletture delle sue hit in chiave jazz anni ’20 con tanto di suoni gracchianti e tripudio di fiati. “Bitter-Sweet” torna su quelle atmosfere, con l’aggiunta però (in otto brani su 13) della sua sempre magica voce, un po’ arrochita dal tempo e dall’usura.

Ispirato dalla serie tv “Babylon Berlin”, a cui ha collaborato, Bryan rilegge famosi titoli dei Roxy e dei suoi lavori solisti saltabeccando fra ragtime, blues e jazz. Archeologia musicale? Niente affatto.  Di certo qualcosa di diverso, straniante. Un gusto rétro, che però non è bieca nostalgia o banale riproposizione di antichi stilemi, ma ricerca di altre dimensioni. E’ chiaro che Ferry adora quei suoni e quell’epoca, ma sa darne una personale visione applicata alla sua musica. E così i brani acquistano un altro vestito, elegante ed evocativo, così old fashion da risultare per certi versi attualissimo.

Ecco “Zamba”, per esempio, da “Bête Noire”, lenta e sussurata, con archi in evidenza e un mood malinconico,mentre “Reason Or Rhyme”, uno dei suoi recenti gioielli, è più incalzante, con una tromba d’antan in evidenza. “New Town” ha un godibile sviluppo charleston con la voce di Ferry sdoppiata, mentre “Chance Meeting”, da un lontano disco solista del ’76, è uno dei momenti migliori, con una bella coda swingante finale. Qualcosa di diverso, ripeto. Fuori dagli schemi, dal tempo e dalle mode. E, cosa non trascurabile, un ascolto piacevolissimo.