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Mese: Marzo 2019

Enrico Ruggeri canta “Forma 21”, un toccante omaggio a Lou Reed

di Diego Perugini

Enrico Ruggeri, foto di ANGELO TRANI
Enrico Ruggeri, foto di Angelo Trani

Enrico Ruggeri l’ha definita “una delle più belle canzoni che ho scritto”. Pensavo esagerasse, ma già la prima volta che l’ho ascoltata ho provato qualcosa. Di bello, di toccante, di commovente. Arriva in coda al suo nuovo cd, “Alma”, come una sorta di chiusura del cerchio. S’intitola “Forma 21” e racconta gli ultimi momenti di vita di Lou Reed, uno dei numi tutelari del cantautore milanese. Enrico la canta in prima persona dalla prospettiva di Lou, che sorretto dalla moglie Laurie Anderson esegue la Forma 21, una figura di Tai Chi che rappresenta l’elevazione verso il cielo.

Un episodio raccontato dalla stessa Anderson e trasfigurato da Ruggeri, che ci mette molto del suo immaginario. Poche immagini a descrivere il bilancio di una vita fino a “l’immobilità di quell’attimo prima dell’infinito” e le mani giunte come in una preghiera. Una ballata poetica e ispirata, con un ritornello in cinese che mette i brividi e un breve solo di chitarra in stile Oasis. “Ma non è lugubre, anzi è una storia vera, intensa e positiva. E’ capitato anche a me di vedere morire delle persone e in comune avevano tutte un’ultima espressione di stupore, forse per il luogo a cui si stavano accostando. Il che lascia aperti degli scenari imperscrutabili”, spiega Enrico.

Un brano, insomma, che vola alto e ti resta dentro, regalandoci un momento di spiritualità e sereno distacco dalle fugaci cose del nostro quotidiano. Dategli un ascolto, non ve ne pentirete. E’ la ciliegina sulla torta di un album (il suo 35°!) per altro riuscito e intrigante, con sonorità rinnovate, grinta live e niente computer. Col piccolo (ma decisivo) aiuto degli amici Decibel e la consueta vena letteraria di Rouge, uno dei pochi in giro che sa raccontare il nostro mondo con poesia e senza retorica. E, fatto non trascurabile, anche in un buon italiano.

“La trap non è ‘na strunzata”, parola di Capo Plaza

Intervista con Capo Plaza. Incontro/scontro fra un giovane campione della trap e un vecchio giornalista musicale.

Capo Plaza
Capo Plaza

Alessandra è una donna intorno ai 50. Giovanile, sportiva, aperta. Ascolta tanta musica, di ieri e di oggi. E, quando ci incontriamo, capita di parlarne. Stavolta la vedo un po’ perplessa: “Mio figlio diciottenne è in fissa con Sfera, Capo Plaza, tutta quella roba lì. Io ci ho provato a capirli, ma proprio non ci riesco. Speriamo sia solo un periodo. E passi presto” mi dice con aria sconsolata.

Casualmente nei giorni seguenti mi commissionano proprio un’intervista a Capo Plaza. Non faccio i salti di gioia, ma come dicono a Milano “el laurà l’è el laurà” e, quindi, mi adeguo. E, poi, da sempre sono un tipo curioso, che ama confrontarsi con cose anche molto diverse dal mio background. Che, forse, è pure una delle mission del “bravo giornalista”.

Anyway, mi metto sotto e mi preparo. Ascolto i pezzi del trapper salernitano, 20 anni e un disco di successo all’attivo, leggo i testi e decifro lo slang con l’aiuto di siti specializzati. Canzoni come “Giovane Fuoriclasse”, “Non cambierò mai”, “Tesla”, “Forte e Chiaro” (la migliore, la più sincera) corredati da videoclip ad alto numero di visualizzazioni. La musica è quel che è: trap. A volte pure melodica e accattivante, se si riesce a superare l’ostacolo dell’autotune, cosa non facile per chi è abituato a certi canoni estetici.

Le parole, invece, raccontano altre cose. La classica storia di riscatto, dalle stalle alle stelle, nello specifico dalla “panchina” alla bella vita di oggi. Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi, e vale anche per Capo Plaza. Però ‘sto ragazzo ci mette dentro tutto un immaginario collettivo fatto di soldi, donne, lusso, abiti firmati e droghe assortite. Tutto molto esibito, troppo esibito. E, diciamola tutta, non proprio educativo per i teenager che ascoltano la sua musica.

Prima di infilarmi in un cul-de-sac di facile moralismo, decido di chiedere lumi al diretto interessato. Sondo il terreno con domande morbide, come il tour europeo partito da qualche giorno, poi mi avvicino al bersaglio. “Voglio scrivere con più responsabilità, fare capire a tutti che la trap non è ‘na strunzata”, mi dice. Penso parli di responsabilità verso chi lo ascolta, ma non è così: “Voglio essere più diretto, preciso, professionale. Crescere come artista, lavorare sempre meglio”.

Gli chiedo come definirebbe la trap. Non ha dubbi: “Un sottogenere del rap. Se non sai fare rap, non puoi fare trap. E’ uno stile di vita: ci piace fumare, andare in giro con gli amici, divertirsi e spendere soldi”. Lo guardo un po’ perplesso, se ne accorge: “Ma è quello che vogliono fare tutti. Tu no?” mi domanda. “Be’, no. Non solo, almeno” mi esce d’istinto. Lui rimane un po’ spiazzato: “Mah, forse sei di un’altra generazione”.

Capisco subito che ha ragione. E, nel giro di pochi secondi, rivaluto la mia tanto bistrattata generazione. Ripenso ai miei vent’anni, l’età di Capo Plaza. Ci si divertiva, si faceva casino, ma c’era qualcosa di più. Interessi culturali, musicali, letterari, artistici, sociali. Persino politici. Io non ero tra i più impegnati, a volte mi sentivo quasi in colpa. Oggi è diverso. E’ tutto molto più individualista, autoreferenziale, superficiale, materialistico. Ma non sono un sociologo e non voglio cadere nelle facili generalizzazioni o, peggio, nella nostalgia. Quindi la chiudo qui.

Capo Plaza
Capo Plaza

Capo Plaza, comunque, non si sente in colpa, anzi. E’ figlio dei nostri tempi. “Stanno rompendo il cazzo con la droga e tutto quanto nelle canzoni. Non c’è solo quello, ma ai giornalisti fa comodo vedere solo quello. Dietro c’è una storia vera, la mia, c’è Luca. E’ tutto vero e perciò piace ai ragazzi” arringa. Arriva a citare i soliti Doors, che parlavano di droga ecc. ecc. “ma a loro non rompevano il cazzo, perché a noi sì?”. Preferisco glissare.

La politica? Non gli interessa. E, visti i tempi che corrono, non mi sento di dargli troppo torto. Il suo, però, è un atteggiamento di rifiuto aprioristico: “Non ne so niente e non m’importa. Tanto sono tutti uguali e ti fregano sempre” riassumo il suo pensiero risparmiandovi i termini ben più coloriti usati. Si ammorbidisce parlando della famiglia. Una madre a cui è legatissimo: “Prima ero una testa di cazzo, l’ho fatta piangere e gliene ho fatte passare di tutti i colori, ma lei c’è sempre stata per me”.

Ora Luca vive a Milano con la sua fidanzata e il manager. E quando non è impegnato con la musica lo puoi trovare in tribuna a San Siro alle partite del Milan, sua squadra del cuore assieme alla Salernitana. “Vengo dal Sud e sono super-tradizionalista. Il Natale rigorosamente in famiglia, il pranzo della domenica tutti assieme. Credo nell’amore e nell’amicizia, sono valori fondamentali. E voglio mettere su famiglia prima dei trent’anni, che senso ha fare un figlio quando sei vecchio?”.

Il fascino discreto dei Coma_Cose

Coma_Cose, è uscito il loro primo album, "Hype Aura". Un lavoro originale e creativo, che fugge gli stereotipi del rap.
Coma_Cose (foto Melania Andronic)

Non solo droga, lusso, abiti firmati, sesso, dissing, linguaggio basico e volgarità assortite. Ogni tanto il mondo del rap e dintorni sforna qualcosa di diverso. Piacevole e, a suo modo, raffinato.

Come il disco d’esordio dei Coma_Cose, “Hype Aura”, duo milanese già entrato da un po’ nel giro dei nomi da tenere d’occhio grazie a vari singoli, ep e live.

A dirla tutta non proprio di rap duro e puro si tratta (e per fortuna). Nel mondo di questi ragazzi ci sono pop, elettronica, canzone d’autore e altro ancora. E funziona.

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