Si parla di Musica! (e non solo)

Mese: Giugno 2020

Un disco per l’estate (vol. 2): Perturbazione e Frah Quintale

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Ce lo provano a spiegare, in termini e modi assai diversi, due artisti italiani d’area indipendente: Perturbazione e Frah Quintale, protagonisti del “disco per l’estate” di questa settimana. Sempre ligi alla regola delle recensioni brevi ed essenziali, per non tediarvi troppo.

Perturbazione, “(dis)amore”, Ala Bianca Records

Vengono da Rivoli e sono in giro da una vita, con alle spalle una bella carriera fieramente indie. Veterani, quindi, che ora si cimentano con un concept-album su una storia d’amore. Una relazione come tante, di quelle che abbiamo vissuto un po’ tutti: si parte alla grande, ci si conosce, ci si ama, sorgono le prime crepe, si va in crisi, ci si allontana. E non ci si riconosce più. Capita.

I Perturbazione lo raccontano in un lungo percorso fatto di 23 canzoni: scelta ambiziosa, ma non sibillina. Perché sanno volare alto senza dimenticare il gusto di un buon ritornello o di un ritmo accattivante. Letterari senza essere spocchiosi, con sonorità pop-rock che guardano spesso agli eroi del passato, per esempio le chitarre in stile Smiths. Piccolo struggente gioiello il singolo “Io mi domando se eravamo noi”.

Recensione di "(dis)amore" dei Perturbazione e di "Banzai (Lato blu) di Frah Quintale

Frah Quintale, “Banzai (Lato blu)”, Undamento

Più semplice (apparentemente) l’approccio di Frah Quintale, rapper bresciano apertosi a suoni e stili contaminati. E anche di successo, visto il riscontro del primo lavoro solista, “Regardez Moi”, uscito tre anni fa. Ora torna con la prima parte di un doppio album, “Banzai”, che racconta le varie facce dell’amore, visto con la sensibilità dei trentenni di oggi.

Felicità e tristezza, piccoli sballi e sbalzi d’umore, poesia del quotidiano e storie di tutti i giorni. Con quella voce un po’ così, stile rapper appunto, che non disdegna falsetti soul e altre divagazioni, fra pop e moderno r’nb’. Roba da giovani, intendiamoci, ma che potrebbe incuriosire pure qualche “matusa” oltre gli “anta”. Come il sottoscritto.

Basta col Menestrello di Duluth!

Bob Dylan. Il suo soprannome Il menestrello di Duluth è insopportabile. Obsoleto e fuori luogo
Bob Dylan, il Menestrello di Duluth

Scrivere di musica è piacevole, ma è pur sempre un lavoro. E nasconde tante piccole grandi insidie a rischio figuraccia. Per esempio quella dei tanti, troppi, soprannomi degli artisti. Alcuni simpatici, altri terribili. Chi scrive con una certa frequenza è praticamente costretto a farvi ricorso, pena il ripetere cento volte il nome della star in oggetto. Pensate solo a Vasco Rossi: lo chiamano Il Blasco, Il rocker di Zocca, Il Kom, Il signor Rossi e via dicendo. E di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe, a ognuno il suo.

Ma c’è un nickname che trovo particolarmente fastidioso, perché vecchio, consunto e fuori luogo: il Menestrello di Duluth riferito a Bob Dylan (per quei pochi che non lo sapessero, Duluth è il luogo di nascita del Nostro). Ricordo ancora una delle prime volte che l’ho usato: ero giovane e volenteroso, collaboravo con L’Unità e mi affidarono un pezzo su Dylan.

Uscì l’articolo e Alessandro Robecchi, che allora si faceva chiamare Roberto Giallo ed era la prima firma musicale del giornale, mi sgridò fra il serio e il faceto: “La prossima volta che scrivi Il menestrello di Duluth ti ammazzo. Dai, non si può proprio sentire…”. Lì per lì ci rimasi male, poi capii la lezione. E non lo scrissi mai più. Ma quell’appellativo obsoleto sopravvive, eccome, fra i titolisti d’Italia. E, ogni volta che si parla del grande Bob, puntualmente spunta fuori il luogo comune. Ieri come oggi.

Comunque sia, i soprannomi possono pure trarre in inganno, sopratutto quando scrivi di corsa e sei sotto pressione. Una volta, sempre su L’Unità, mi toccò recensire un concerto di Iggy Pop, detto l’Iguana. Per qualche strana deviazione mentale per tutto l’articolo lo chiamai l’Anguilla (e, in effetti, durante il live s’era dimenato come il gustoso pesce). Mandai il pezzo e, finalmente, mi rilassai. A fine giornata, però, squillò il telefono. Era, da Roma, il caposervizio spettacoli Alberto Crespi, esperto di cinema e (per fortuna) anche di musica. Ecco il nostro surreale dialogo.

“Diego, scusa, ma perché nel pezzo hai chiamato Iggy Pop l’Anguilla?”, esordì un po’ imbarazzato.

“Ma è il suo soprannome, no?!”, risposi un po’ seccato con fare da saputello.

“Ma non era l’Iguana?” aggiunse Alberto.

Seguì un colpo al cuore: “Cazzo sì, certo. Ma che pirla, come ho potuto sbagliare?!”, dissi rosso di vergogna, cospargendomi il capo di cenere.

Alla fine l’errore venne corretto in extremis e il pezzo uscì senza problemi. Risparmiando al giornale e, soprattutto, a me stesso quella che Emilio Fede definirebbe: “Una figura di m… storica!”.

Un disco per l’estate (vol. 1): Norah Jones e Neil Young

Il titolo e la foto non traggano in inganno. In questa rubrichetta che vado a inaugurare, non parlerò di pezzi estivi, tormentoni reggaeton et similia. Ma segnalerò qualche album a mio parere meritevole, interessante, intrigante. Bello, insomma. Da ascoltare con calma nella lunga estate calda che ci attende. Poche righe a disco, perché la gente si stufa a leggere fiumi di parole (così, almeno, dicono) e perché così si lascia integro il piacere della scoperta. Dai, cominciamo.

Il nuovo album di Norah Jones, "Pick Me Up Off The Floor". Recensione

Norah Jones, Pick Me Up The Floor.

Anni fa, durante un’intervista, Pat Metheny mi disse che fra le nuove leve apprezzava soprattutto Norah Jones, un talento autentico. Ci rimasi un po’ così, perplesso. Perché non l’avevo mai considerata più di tanto. Bravina, carina e chiusa lì. Col tempo ho imparato a conoscerla meglio e a seguire la sua carriera ondivaga, non priva di divagazioni sperimentali. In questo nuovo cd Norah torna al piano e a quel miscuglio di jazz, blues, gospel e folk che l’ha resa famosa nel lontano 2002. Ora è più matura e adulta, meglio a fuoco. E sforna un lavoro notturno, raffinato e agrodolce, morbido ma non privo di inquietudini. Musicisti doc, sonorità vecchio stile e una voce ispirata. Anche nei testi, in equilibrio fra pubblico e privato, tristezza e speranza. Chissà, forse il ricciuto Pat non aveva tutti i torti.

Il nuovo album di Neil Young, "Homegrown". Recensione

Neil Young, Homegrown.

Ecco un disco di culto, registrato fra il ‘74 e ‘75 e mai pubblicato dal grande canadese. Perché all’epoca lo riteneva troppo triste, doloroso, personale. Vi si narrava la fine di un amore, lo strappo, il cuore infranto. Doveva essere il successore di “Harvest” (per la cronaca, uno dei miei LP preferiti di sempre), invece è rimasto nel cassetto fino a oggi. Ma, come dice il proverbio, il tempo guarisce le ferite e alla fine il Nostro ha fatto pace col passato e pure con quelle canzoni. Ascoltarle ora, anno di grazia 2020, fa un po’ effetto, una specie di ritorno al futuro. Brani dolcemente scarni, sonorità spesso acustiche, malinconia soffusa (ma non così devastante, almeno per chi ascolta) e, sopratutto, “quella” voce. Roba d’altri tempi, nostalgia canaglia. Però, che bello.

“No Flag”, il ritorno di Elvis Costello

di Diego Perugini

A volte ritornano. Per fortuna. Da qualche giorno gira sul web un nuovo singolo di Elvis Costello, “No Flag”, corredato da un essenziale lyric-video. La prima volta che l’ho ascoltato m’è sembrato di andare indietro nel tempo, all’epoca in cui ho scoperto la grinta rabbiosa di quel ragazzo con gli occhialoni neri, capace però anche di deliziose carezze melodiche. Divenne subito uno dei miei artisti preferiti. E lo rimane anche ora.

Il Costello di “No Flag” è un pugno ben assestato al sistema socio-politico di oggi: la musica è scarna, tirata, parte con un po’ di elettronica e poi gira intorno a un ipnotico riff di chitarra. Roba semplice, ai confini del punk, registrata in pochi giorni solitari in Finlandia, con al centro la voce arrabbiata del nostro, stavolta per niente “crooner”.

Il testo è diretto e potente, e descrive in termini crudi e quasi da slogan il disgusto per il mondo attuale (nostri governanti inclusi). “Non ho religione, non ho filosofia/ Ho la testa piena di idee e di parole che non mi appartengono” sono le prime frasi di una “protest song” quanto mai condivisibile. Sono tempi duri, insomma, e il vecchio Elvis non le manda a dire. Dategli ascolto, merita. E per il 10 luglio in arrivo altre novità.

Covid-19, la musica va avanti. Nel bene e nel male

di Diego Perugini

Continuano le polemiche sul mancato rimborso per i concerti italiani annullati di Paul McCartney
Paul McCartney

Ho scritto poco, anzi pochissimo, in questo tempo di quarantena. Perché non me la sentivo, ero come svuotato, provavo il desiderio di fare altro. Staccare la spina. E così ho fatto. E, poi, non volevo intasare il web di altri fiumi di parole, c’erano già così tanti commenti, dibattiti, opinioni, critiche, denunce e via dicendo. Di tutto e di più. Anzi, troppo.

E la musica? A dirla tutta, davvero non si è mai fermata, nel bene e nel male. Dai canti collettivi sui balconi agli streaming e ai concerti virtuali, mentre nella casella mail sfilava tristemente la ridda delle news sulle cancellazioni dei tour. Le iniziative, le polemiche e le proteste, poi. Con media e social ad amplificare tutto, anche qui nel bene e nel male. Chi capisce e chi no, chi prova a (ri)costruire e chi spara a zero, sempre e comunque.

I lavoratori della musica chiedono giustamente aiuto e sostegno dal governo (La Musica Che Gira), ma anche per noi giornalisti son tempi duri fra chiusure di testate e compensi sempre più striminziti. Gli spettatori vogliono indietro i soldi dei concerti annullati (e non generici voucher), con la punta dell’iceberg del caso McCartney. Ci si divide pure sulle modalità di ripartenza, mentre arrivano tristi comunicati sulla chiusura definitiva di club, teatri e rassegne. E’ uscito anche qualche disco, ma col contagocce (il 19, però, è in arrivo Dylan), perché gli artisti preferiscono attendere tempi migliori.

Intanto qualcuno riprova davvero a partire col live, con tutte le precauzioni del caso. L’iniziativa Live Is Live, che lunedì 15 coinvolgerà una serie di regioni con concerti di Boosta, Ascanio Celestini, Giovanni Truppi e altri. I mini-tour già annunciati di Gazzè, Diodato e Silvestri e alcuni festival che confermano la loro programmazione (Tones On The Stones, Santarcangelo, Occit’amo…). Sarà un nuovo inizio? Si spera. E, magari, mi tornerà pure la voglia di riprendere a scrivere.