Il blog di Diego Perugini

Si parla di Musica! (e non solo)

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Il “lungo addio” del divo Claudio

©_ANGELO_TRANI

Un po’ me lo aspettavo questo addio del divo Claudio. Perché il tono della mail-invito alla conferenza stampa era di quelli ufficiali, stranamente serioso.

E mi ha ricordato quanto era accaduto con l’annuncio di commiato dei Pooh, ormai diversi anni fa.

Curioso, semmai, il paio d’anni che ci separano dal fattaccio, quei “1000 giorni” (citazione dal suo capolavoro, per gli scarsamente avvezzi al canzoniere di Baglioni) in cui il Nostro proseguirà a fare musica alla sua maniera.

Quindi ci saranno i concerti kolossal del tour “aTUTTOCUORE” (in questi giorni al Forum di Assago), un nuovo disco definitivo e, strada facendo, chissà quante altre celebrazioni in pompa magna (stadi inclusi?).

Vuole lasciare da vincitore, ha dichiarato, per non diventare macchietta né ripetersi. Scelta lodevole, nulla da eccepire.

“Il meglio l’ho già dato”, sembra dirci, quindi meglio chiudere all’alba dei 75 anni, con alle spalle una gloriosa carriera. E, magari, cimentarsi in altre avventure, diverse, ancora da sperimentare.

Non sparirà dalla circolazione, pare di capire, ma ce lo ritroveremo qua e là in situazioni differenti. Per la gioia dei tanti estimatori e l’irritazione degli irriducibili detrattori.

Nel frattempo i fan avranno modo di saziarsi in abbondanza fino al 2026 vedendolo più e più volte in concerto, prima del ritiro dalle scene.

E, poi, non si sa mai. Altri artisti, dopo proclami similari, sono tornati sulla scena, spinti dall’irrefrenabile voglia di ritrovare il pubblico live e riprovare quelle emozioni uniche. Quindi, chissà.

Magari nel 2040 o giù di lì il Nostro tornerà a indossare, pardon intonare, la famosa “maglietta fina” su qualche palco.

Un po’ più vecchio e un po’ più stanco. Ma sempre divo Claudio.

Il vecchio amico Omar

Domani ai Magazzini Generali, già sold out, arriva Omar Pedrini con una serata speciale dedicata al suo album "Che ci vado a fare a Londra?"

Ci sono degli artisti con cui ti trovi di più. Per questioni di gusti musicali, affinità elettive, percorsi in comune. Non dico degli amici, ma quasi.

Uno di questi, per me, è Omar Pedrini.

Ogni volta che lo incontro, ormai piuttosto di rado, mi fa molto piacere. L’ultima occasione, qualche anno fa all’uscita di un cinema, poco prima del terremoto Covid, mi regalò un abbraccio e un sorriso.
Che ricambiai sinceramente.

Vi sono affezionato probabilmente anche perché Omar mi ricorda i miei inizi. Anzi, in pratica, sia io che lui abbiamo cominciato le rispettive carriere nello stesso momento.

Era all’incirca la metà degli anni 80. Io, qualche anno più grande, cercavo di farmi strada nel mondo del giornalismo, lui in quello assai più glamour del rock coi suoi Timoria.

C’era, ovviamente, anche Francesco Renga, che all’epoca portava i capelli corti ed era senza barba. Quasi irriconoscibile.

Eravamo giovani e incoscienti (si fa per dire), in un momento elettrico e stimolante per tutti. Ci incontravamo spesso, fra concerti e interviste. C’era un bel feeling, insomma.

Ricordo che recensii positivamente su “L’Unità” il loro singolo “Non sei più tu”, che mi piaceva soprattutto per una passionale cover della storica “Pugni chiusi”.

Mi regalarono pure la foto originale da cui venne tratta la copertina del disco di debutto, “Colori che esplodono”. Devo ancora averla da qualche parte.

Poi le nostre strade, ovviamente, hanno preso direzioni diverse. E Omar ne ha vissute di ogni, dalla dolorosa separazione da Renga a pesanti problemi di cuore (nel vero senso della parola). E molto altro ancora.

Ma ha tenuto duro e sono contento di saperlo domani di nuovo protagonista di un concerto “tutto esaurito” ai Magazzini Generali di Milano.

Sarà una specie di festa dedicata ai dieci anni di “Che ci vado a fare a Londra?”, disco della rinascita dopo un periodo buio, col piccolo aiuto di un mito come Noel Gallagher degli Oasis.

Album che, fra parentesi, venerdì uscirà per la prima volta in vinile e domani sarà possibile acquistare autografato al concerto (la nuova versione digitale, invece, conterrà due bonus tracks).

Il futuro? Ancora un paio di concerti e poi un po’ di tranquillità, almeno così dice lui, per i soliti problemi di salute.

Anche se, conoscendolo, non sarà facile tenerlo lontano dal palco.

Alla prossima, Omar. E, come sempre, in bocca al lupo!

“People from Cecchetto”

Ho visto il documentario su Claudio Cecchetto (“People from Cecchetto”, lo trovate su RaiPlay) spinto dalla curiosità. E dal solito rigurgito nostalgico verso un’epoca che non c’è più.

Anche se, devo dire, al tempo giudicavo l’intraprendente dj-produttore-talent scout come una sorta di nemico da combattere.

Un produttore di musica usa-e-getta che a me, liceale alla scoperta del grande rock, procurava una sorta di snobistico ribrezzo.

Insomma, mi crogiolavo fra Traffic, Genesis, King Crimson e i primi Dire Straits, tanto per fare qualche nome, come potevo non indignarmi di fronte a un’imbarazzante filastrocca come “Joca Jouer”?

O all’ascolto del tormentone “People from Ibiza” (storpiato da qualche buontempone in “Pippo fa la pizza”) del bellone Sandy Marton, uno che per sua ammissione non sapeva cantare.

Non che col tempo il mio parere sul valore delle produzioni di Cecchetto sia di molto cambiato.

Mai ascoltato per più di qualche minuto Radio Deejay, troppo dance, troppo commerciale per i miei gusti.
E mai guardato “Deejay Television”, stesso discorso.

Però il documentario me lo sono visto lo stesso. Per tornare un po’ indietro nel tempo, forse per capirne di più.

Si parte da un Cecchetto giovane e intraprendente, che si butta anima e corpo nell’avventura nascente delle radio libere.

E, strada facendo, diventerà una sorta di star, un Re Mida dal fiuto infallibile, un anticipatore di stili e tendenze.

O, almeno, questo è quanto ci racconta chi lo ha incontrato e avuto come maestro/datore di lavoro.

Da Gerry Scotti a Fiorello, da Amadeus a Jovanotti, da Sabrina Salerno e Fabio Volo, da Carlo Conti a Leonardo Pieraccioni e Francesco Facchinetti.

Oltre naturalmente al diretto protagonista (e la moglie Mapi Danna), intervistato per l’occasione.

Al panegirico collettivo manca solo un big come Max Pezzali, con cui notoriamente i rapporti non sono proprio idilliaci. Sì, perché pure gli 883, per quei pochi che non lo sapessero, sono stati una creazione di Cecchetto.

Alla fine del viaggio, un’oretta e mezza che passa via veloce, quello che ci rimane è il ritratto di un imprenditore furbo e caparbio, determinato e coraggioso, ambizioso e visionario.

Finanche dispotico e prepotente verso i suoi dipendenti (quasi tutti ricordano con terrore i suoi micidiali “cazziatoni”) per far valere le sue idee.

E’ stato il rappresentante esemplare degli anni Ottanta (e oltre) più effimeri e leggeri. Molto business, poca arte.

Per questo un tempo lo vedevo come il fumo negli occhi, un genio del male, mentre oggi l’età mi ha reso più tollerante.

E, durante la visione, confesso di aver sorriso più di una volta guardando le immagini del periodo e sentendo gli aneddoti al riguardo.

Amadeus giovanissimo al microfono, Gerry Scotti (quasi) magro, il Jovanotti imberbe di “Gimme Five”, la prorompente Sabrina Salerno di “Boys”, la moda dei “paninari”, il festival di Sanremo senza orchestra (e con le basi) e via così.

Mai stati (e mai saranno) la mia “cup of tea”.
Però, almeno, oggi ci rido sopra.

Bigger in Texas. A Milano

Per fortuna capita ancora di sorprendersi. E di ritrovarsi alla fine con la piacevole sensazione di aver assistito a qualcosa che è andato oltre le proprie aspettative.

E’ accaduto ieri sera alla Galleria Arte Colombo, nel cuore della Brera meneghina (via Solferino 44). Qui, fino al 10 febbraio, c’è la mostra “Texas Tornados”, che ospita opere varie di altrettanti artisti americani, incluso il cantautore di culto Tom Russell, appassionato di letteratura e pittura.

Se vi capita, fateci un salto, guardate e apprezzate.
E’ un bel posto ed è pure a ingresso libero.

Ancora meglio quando quelli del Buscadero, storica rivista a cui ho collaborato anch’io in tempi preistorici, vi organizzano una serata di musica ad hoc, “Bigger in Texas”.

Atmosfera calda e amichevole, quattro chiacchiere col direttore della rivista Guido Giazzi (alias Fernando), il cantautore Andrea Parodi come cerimoniere, più il corredo di birre e margaritas a corroborare gli animi.

Al centro, protagoniste, due cantautrici a stelle-e-strisce: la piccola e minuta Eileen Rose, che ci dicono vicina a trasferirsi definitivamente in Italia, e la più imponente Dayna Kurtz, in tour nel nostro paese sino a lunedì 18, un donnone dall’animo sensibile e la schietta vena antifascista .

Con loro ottimi strumentisti locali, fra dobro e fisarmonica, più Robert Mache alla chitarra elettrica e mandolino. Due mini-set, con jam collettive e piccole improvvisazioni, fra country, folk e blues, davanti a un pubblico che si gode la possibilità di ascoltare buona musica a pochi metri di distanza dal palco.

Si chiacchiera e si canta di amore, sogni, passione e libertà, con la figura di Dayna che pian piano monopolizza la scena col suo talento e la sua presenza scenica.

Così si sfora ampiamente l’orario di chiusura, si finisce a cantare tutti in coro e si torna a casa col sorriso sulle labbra.

Altro che Forum di Assago e concerti costruiti fino al millesimo, per una volta tanto viva il bello delle piccole cose genuine.

“E’ stato veramente bellissimo!”, parola di Nomadi

E' uscito "E' stato veramente bellissimo!", cofanetto dei Nomadi dedicato allo storico cantante Augusto Daolio. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

“Volevamo solo divertirci, non pensavamo neanche di fare dischi. E, invece, siamo ancora qua”. Beppe Carletti ha 77 anni ben portati, dei quali una sessantina coi Nomadi.

Ed è proprio questa memorabile storia al centro di “E’ stato veramente bellissimo!”, cofanetto di quattro cd e due dvd, che vuole soprattutto essere un tributo alla memoria di Augusto Daolio.

Il titolo stesso si riferisce alla frase che il cantante, scomparso nel lontano 1992, ripeteva alla fine di ogni esibizione.

Dentro c’è un po’ di tutto: inediti, rarità, provini, remix, versioni in spagnolo e momenti live, tra cui il concerto al teatro Smeraldo di Milano (altro luogo storico che non c’è più) del 21 ottobre 1991.

Per chi ama la band emiliana, colta in uno dei momenti migliori della carriera, è ovviamente una raccolta da non perdere.

In più il 7 gennaio 2024, alle 23.15 su Rai 3 e RaiPlay, andrà in onda “Nomade che non sono altro”, un documentario ad hoc con tante testimonianze e immagini d’epoca.

Carletti ama soffermarsi sui ricordi di un mondo diverso, a cui tornerebbe volentieri.

Gli anni 60 degli inizi, la gavetta, l’amicizia, le balere e i caffè concerto, il calore delle feste popolari, il gusto per le piccole cose e la voglia matta di suonare, che porterà i Nomadi alla cifra record di 220 concerti all’anno.

“Non siamo mai stati i primi, non ci interessava. Però volevamo esserci. Il nostro segreto? La coerenza, il non essere scesi a compromessi”.

Poi ricorda il rapporto con Augusto, il suo carisma, la sua forza e il suo instancabile desiderio di stare su un palco: “Ha lasciato un segno incredibile. E la sua figura ancora oggi è fortissima. Anzi, spiace dirlo, è stato riconosciuto più da morto che da vivo”.

Ma, siccome non si vive di sola nostalgia, Carletti guarda avanti.

Si coccola la giovanissima promessa Camilla Pandozzi che vuole aiutare a emergere e intanto continua a macinare serate con la sua band, con un calendario già ricco di date da qui all’anno prossimo.

“Una storia lunghissima. Ogni tanto mi chiedo, ma quando finirà? E non so darmi una risposta”.

Weekend con l’Angolo del Cinefilo

Weekend con l'Angolo del Cinefilo. Nuova infornata di film per passare una buona serata. Da Dogman a Scorsese. E molto altro ancora. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Tanto per uscire dalla malinconia invernale, ecco un’infornata particolarmente ricca di titoli per il mio Angolo del Cinefilo.

Di tutto e di più, come si usa dire.

Il mio preferito di questi tempi resta il cinefilo/cinofilo Dogman di Luc Besson, che si guadagna la foto di copertina, ma anche Anatomia di una caduta merita. E molto.

Ma parlo pure dell’ultimo Scorsese e di qualche sorpresina meno nota in ambito fantascienza-horror come Dual – Il cloneBarbarian.

Più tutto il solito archivio ricchissimo (massì, esageriamo).

Buona visione e buon weekend! 

Addio Jimmy, ciao Denny

Se n'è andato anche Jimmy Villotti, già chitarrista per Paolo Conte e altri. Il ricordo di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

In questi giorni se ne sono andati due chitarristi a me cari, in un modo o nell’altro. Parlo di Denny Laine e Jimmy Villotti.

Due artisti lontani e diversi fra loro, che credo non si siano nemmeno sfiorati nella loro troppo breve esistenza.

Denny Laine ha suonato per anni accanto a Paul McCartney nell’avventura post-Beatles degli Wings. E io, da giovane appassionato, mi cullavo con quei dischi magari non eccelsi ma che allora (e anche oggi, massì) mi piacevano assai.

Il primo Lp in assoluto che comprai fu proprio “Red Rose Speedway” nel lontano 1973. E, sfogliando il libretto interno ricco di foto, feci la conoscenza di quel ragazzo ossuto e dal naso prominente. Il chitarrista di Paul, perbacco.

E da lì la sua presenza mi divenne in un certo senso familiare, con l’apice qualche anno dopo di “Band On The Run”, uno dei lavori più memorabili degli Wings, di cui ricorre ora il cinquantesimo anniversario.

Poi, come spesso capita, le strade si dividono e si divisero pure quelle di Denny e Paul, uno dei primi a ricordarlo con affetto. Amen.

Jimmy Villotti, invece, l’ho conosciuto per davvero.

Prima come musicista di Paolo Conte (e molti altri), poi come estroso solista nei primi anni 90.

Ricordo con piacere gli appuntamenti per il lancio del suo “Jimmy Villotti”, funambolico album del 1993, ricco di spunti e sorprese, ancora oggi godibilissimo. Vi consiglio di (ri) ascoltarvelo, è un gioiellino.

Lo vidi diverse volte, fra piccoli showcase, la partecipazione al Club Tenco e un bel live al Capolinea, storico tempio del jazz meneghino, uno di quei locali che (ahimè) non ci sono più. Bravo, anzi bravissimo, chitarrista. Ma non solo.

Infatti mi capitò di incontrarlo e intervistarlo, constatando di persona quanto fosse simpatico, divertente e amabile, come giustamente ho letto nelle testimonianze di questi giorni.

Lessi in fretta e con piacere pure “Gli sbudellati”, libretto che alla sua maniera racconta di jazz e di Bologna, anche questo da recuperare. Ce l’ho da qualche parte nella mia libreria, con dedica personalizzata.

Anzi, adesso corro a cercarlo.

Dave Stewart nel nome degli Eurythmics

La nostalgia è una brutta bestia. Che ti spinge ad andare su sentieri battuti alla ricerca del ricordo perduto. E via così.

Lo ammetto. E’ stato quello il motivo che mi ha portato al concerto di Dave Stewart al Dal Verme di Milano, unica data italiana del suo Eurythmics Songbook.

Il pretesto sono i 40 anni dell’album “Sweet Dreams”, una pietra miliare dell’elettropop inglese del periodo.

Vedo che non sono il solo a caccia di un po’ di revival in questa fredda notte meneghina.

In platea noto molta gente sui sessanta, con calvizie e pancetta in surplus. Ma chi se ne frega, come direbbe Fantozzi. L’importante è riportare a casa delle buone vibrazioni.

Stewart per l’occasione ha approntato uno spettacolo di bell’impatto. Pochi effetti speciali, se non un grande schermo sullo sfondo, dove ogni tanto fanno capolino foto d’epoca, lui e Annie, stile “come eravamo”.

Già, Annie Lennox. Lei non c’è. Ed è impossibile sostituirla. E, allora, ecco la trovata di tre voci femminili, una delle quali è la figlia Kaya, che ovviamente non sono all’altezza della divina. Ma, va detto, se la cavano bene.

Così come il resto del folto ensemble, di sole donne, brave e belle, all’insegna di quel “girl power” così caro alla signora Lennox.

Partenza un po’ fiacca, poi ci si scalda e arrivano i bei momenti. Il duello fiati e armonica su “There Must Be An Angel” e quello chitarra e violino fra Dave e l’ospite Rodrigo D’Erasmo in una tempestosa versione di “Here Comes The Rain Again”, forse il meglio della serata.

Arrivano pure una minimale versione di “Thorn In My Side” e una corale, in circolo e acustica, di “When Tomorrow Comes”. Diverse, carine.

Stewart ogni tanto parla di lui e Annie, del loro rapporto d’arte e d’amore, restando saggiamente in equilibrio fra affetto e ironia. E lascia che siano la band, la sua chitarra (sempre precisa ed efficace) e le canzoni a tenere banco.

L’accelerata finale spinge sul ritmo e sui classici, con la platea in piedi a ballare: “Missionary Man”, “Would I Lie To You” e “Sisters Are Doin’ It for Themselves”, inno femminista quanto mai necessario di questi tempi brutti.

Il bis, ovviamente, è quello da cui è partito tutto: l’intro di tastiere e batteria è inconfondibile, quindi sotto con “Sweet Dreams (Are Made Of This)”, fra battimani, cori e danze.

Esco dalla sala col sorriso sulle labbra. E ripenso agli Eurythmics che vidi al Palatrussardi una vita fa. Beh, non proprio la stessa cosa.

Ma è stato bello comunque.

Il ritorno di Elio e le Storie Tese

Due sere da tutto esaurito agli Arcimboldi per Elio e le Storie Tese. Il ritorno di cari vecchi amici. Ancora maledettamente in forma. Recensione di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it
EelST live 2023, foto di Francesca Gaudenzi

E’ stato come ritrovare dei vecchi amici. Di quelli che hai perso di vista da un po’ e rivedi sempre con piacere.

Con la sorpresa di ritrovarli in forma e belli arzilli, nonostante il tempo che passa e le mode che cambiano.

Loro no. Elio e le Storie Tese rimangono quelli di un tempo, con le loro follie “zappiane” e le provocazioni a fior di pelle, gli scherzi musicali e la satira sul pazzo mondo che ci gira intorno.

In questo ”Mi resta un solo dente e cerco di riavvitarlo”, approdato per due sere da “tutto esaurito” agli Arcimboldi, i nostri (di bianco vestiti) raccontano la Terra dei Cachi 2023 con le sue contraddizioni e le sue assurdità.

Come, per esempio, premiare il comico Pucci con l’Ambrogino d’oro: “Noi l’avremmo dato a Mangoni!” ripetono dal palco. E come dar loro torto?

Siamo in teatro e lo spettacolo è, appunto, teatrale.

Quindi fitto di monologhi e introduzioni, canzoni spiegate e siparietti divertiti e divertenti. Si ride spesso e volentieri.

Delle favole surreali in “Uomini col borsello” o della realtà dei “due di picche” che tutti abbiamo collezionato nella sempre strepitosa “Servi della gleba”.

Ma c’è pure la critica sociale di “La follia della donna”, “Storia di un bellimbusto” e “Parco Sempione”, a stigmatizzare una società di smanie modaiole, culto dell’effimero e speculazioni edilizie.

Elio e soci raccontano tutto questo e molto di più, col sorriso sulle labbra e l’assolo in canna, come bravi virtuosi, mentre Mangoni irrompe da par suo con mise improbabili. Il pubblico urla, canta, partecipa.

Così viene voglia di ballare e scatenarsi sul ritmo dance di “Born to be Abramo”, sino alla consueta apoteosi collettiva di “Tapparella”, canzone-manifesto che da tempo immemore conclude le esibizioni del gruppo.

La dannata festa delle medie, l’emarginazione e i desideri frustrati, un sogno finale di libertà e partecipazione. Massì, diciamolo: un capolavoro.

E, allora, una volta di più: “Forza Panino!”.

foto di Francesca Gaudenzi

p.s. il tour prosegue sino al 21 dicembre: qui tutte le date.

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