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Tag: Bob Dylan

Bob Dylan in Italia!

Tra qualche giorno Bob Dylan tornerà in Italia col suo tour.

Un giro di concerti, dal 3 al 9 luglio, che dalle nostre parti ha suscitato qualche mese fa una ridda di polemiche per la scelta di vietare l’uso dei telefonini in sala.

Se interessa, ne ho scritto anch’io, qui.

Adesso, però, magari si potrebbe parlare anche di musica. E di quel che il grande Bob presenterà. Cioè una scaletta rigida, con piccole variazioni umorali sul tema, come per esempio la scelta di una “cover” invece di un’altra.

Ma quel che anche il più profano degli ascoltatori potrà notare è la mancanza di quei grandi classici che hanno segnato la storia dylaniana.

Per capirci: non ci sono “Like a Rolling Stone”, “Knockin’ on Heaven’s Door”, “Mr. Tambourine Man”, “Blowin’ in the Wind” e via così.

Ritroviamo, invece, diversi pezzi dall’ultimo (e per niente facile) album “Rough and Rowdy Days”, più una serie di brani pescati dal suo infinito canzoniere. Magari non proprio minori, ma di certo non così famosi.

Insomma, Dylan continua ad andare controcorrente.

Mentre altri confezionano spettacoli zeppi di vecchi successi per compiacere il pubblico nostalgico, lui va per la sua strada e fa quel che vuole.

Immagino potrebbe raccogliere molto più pubblico con uno spettacolo di greatest hits, magari con una scenografia ricca e accattivante, ma evidentemente non gliene può fregare di meno.

E non vi aspettate omaggi ruffiani alla città di turno. Tipo “O mia bela madunina” a Milano o “Roma nun fa’ la stupida stasera” nella Capitale.

Dylan gioca in un altro campionato.

Poi magari ci sarà chi lo criticherà per la voce sempre più roca, per gli arrangiamenti arditi o per le scelte elitarie di repertorio.

Ma il bello dell’arte, in fondo, è proprio questo.

Seguire la propria ispirazione senza compromessi, stupire l’ascoltatore e portarlo su territori meno consueti. Anche a costo di scontentare qualcuno.

Un approccio sempre più raro in questi tempi di ricerca di consensi e di “vincere facile”. Quindi, bentornato Bob.

Sempre e comunque.

E se Dylan avesse ragione?

Bob Dylan annuncia un nuovo tour in Italia a luglio. Ma col divieto di portare in sala il proprio telefonino. La riflessione di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Giorni fa è arrivata la notizia di nuovi concerti in Italia di Bob Dylan, dal 3 al 9 luglio. Accompagnata dall’avviso che, su richiesta dell’Artista, non sarà possibile accedere in sala (o in piazza) col proprio smartphone.

Una scelta motivata dalla considerazione che un live senza telefoni “crei un’esperienza migliore per tutti i presenti”.

Per capirci: si tratta di una scelta “obbligatoria e non negoziabile”, con un sistema di custodia chiusa dove riporre il proprio amato device a carico dello stesso spettatore. In pratica, quando acquisti il biglietto paghi pure 5 euro per il servizio, come spiegato qui.

L’iniziativa ha suscitato un certo clamore, come prevedibile, sebbene non sia esattamente una novità. Ma tant’è.

La cosa che mi ha incuriosito è la levata di scudi dei tanti che non vogliono rassegnarsi a rinunciare per un paio d’ore al proprio telefonino, adducendo le più improbabili scuse di emergenze improvvise e necessità impellenti.

E spesso condendo il tutto, in una sorta di vendetta per l’affronto, da pesanti critiche totalmente fuori contesto al valore artistico del Dylan attuale.

Come se non fosse possibile staccarsi per 120 minuti (anche meno, ormai Bob fa concerti di non più di un’ora e mezza) dai propri social, evitare di farsi selfie a ripetizione e scattare foto a manetta (magari col flash).

Come se non fosse possibile smettere di riprendere ogni istante dello spettacolo rigorosamente a braccia alzate rompendo le scatole (eufemismo) a chi è seduto dietro.

E’ una questione di educazione.

Posso capire i pochi secondi ripresi delle propria canzone preferita, ma vedere sempre questa selva di smartphone accesi è una tortura, almeno per chi va un concerto per godersi la serata hic et nunc.

Poco servono, poi, inviti e raccomandazioni: me ne sono accorto al recente recital di Paolo Conte alla Scala. Nonostante gli avvisi, anche lì in parecchi hanno sfoderato il proprio device. E non sono mancati gli inopportuni squilli a scena aperta. Che tristezza.

Il problema è che in questo Paese (ma temo non solo da noi) si fa fatica a rispettare le regole. E, ahimè, funzionano solo i metodi coercitivi o sanzionatori.

Semmai spiace per chi, invece, le regole le rispetta, penalizzato da una fastidiosa gabella. Ma è la solita storia, purtroppo.

Insomma, Dylan ha scelto così. Amen. Poi sarà interessante vedere se il tutto creerà ritardi, code o disservizi. E se ci saranno i soliti furbi che tenteranno di farla franca, magari con un secondo cellulare nascosto fra le mutande.

In ogni caso, per gli irriducibili stakanovisti dello smartphone e per chi ritiene che la “modalità aereo” sia un insuperabile tabù resta sempre un’altra opzione: starsene a casa.

Credo che anche Dylan se ne farà una ragione.

Scarlet Rivera, il violino di Dylan in tour

Il violino di Scarlet Rivera fu protagonista di uno dei miei ascolti prediletti da adolescente, “Desire” di Bob Dylan, anno di grazia 1976.

Il disco, per capirci, di “Hurricane” e altre piccole grandi gemme.

Leggenda vuole che il cantautore americano avesse già pronte per quell’album le parti di chitarra di Eric Clapton, ma che all’ultimo le sostituì col violino di una ragazza conosciuta poche sere prima per strada nel Village.

Scarlet, appunto.

Non so se le cose siano andate proprio così, ma mi piace crederlo.

In ogni caso, l’incontro con Dylan le cambiò la vita e, a distanza di quasi 50 anni, la nostra eroina ha deciso di rendere omaggio al grande Bob con un nuovo album, “Dylan Dreams” in cui per la prima volta interpreta le sue canzoni, da “Series of Dreams” a “Señor”.

Scarlet sarà impegnata, da oggi al 25 maggio, in un lungo tour italiano fra concerti, incontri, festival e serate speciali per presentare il nuovo lavoro e accompagnare al violino i cantautori Andrea Parodi Zabala e Thom Chacon.

Si parte stasera, alle 19, dalla Feltrinelli di piazza Gae Aulenti, Milano (ingresso libero).

Qui le altre date e tutti gli aggiornamenti.

Basta col Menestrello di Duluth!

Bob Dylan. Il suo soprannome Il menestrello di Duluth è insopportabile. Obsoleto e fuori luogo
Bob Dylan, il Menestrello di Duluth

Scrivere di musica è piacevole, ma è pur sempre un lavoro. E nasconde tante piccole grandi insidie a rischio figuraccia. Per esempio quella dei tanti, troppi, soprannomi degli artisti. Alcuni simpatici, altri terribili. Chi scrive con una certa frequenza è praticamente costretto a farvi ricorso, pena il ripetere cento volte il nome della star in oggetto. Pensate solo a Vasco Rossi: lo chiamano Il Blasco, Il rocker di Zocca, Il Kom, Il signor Rossi e via dicendo. E di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe, a ognuno il suo.

Ma c’è un nickname che trovo particolarmente fastidioso, perché vecchio, consunto e fuori luogo: il Menestrello di Duluth riferito a Bob Dylan (per quei pochi che non lo sapessero, Duluth è il luogo di nascita del Nostro). Ricordo ancora una delle prime volte che l’ho usato: ero giovane e volenteroso, collaboravo con L’Unità e mi affidarono un pezzo su Dylan.

Uscì l’articolo e Alessandro Robecchi, che allora si faceva chiamare Roberto Giallo ed era la prima firma musicale del giornale, mi sgridò fra il serio e il faceto: “La prossima volta che scrivi Il menestrello di Duluth ti ammazzo. Dai, non si può proprio sentire…”. Lì per lì ci rimasi male, poi capii la lezione. E non lo scrissi mai più. Ma quell’appellativo obsoleto sopravvive, eccome, fra i titolisti d’Italia. E, ogni volta che si parla del grande Bob, puntualmente spunta fuori il luogo comune. Ieri come oggi.

Comunque sia, i soprannomi possono pure trarre in inganno, sopratutto quando scrivi di corsa e sei sotto pressione. Una volta, sempre su L’Unità, mi toccò recensire un concerto di Iggy Pop, detto l’Iguana. Per qualche strana deviazione mentale per tutto l’articolo lo chiamai l’Anguilla (e, in effetti, durante il live s’era dimenato come il gustoso pesce). Mandai il pezzo e, finalmente, mi rilassai. A fine giornata, però, squillò il telefono. Era, da Roma, il caposervizio spettacoli Alberto Crespi, esperto di cinema e (per fortuna) anche di musica. Ecco il nostro surreale dialogo.

“Diego, scusa, ma perché nel pezzo hai chiamato Iggy Pop l’Anguilla?”, esordì un po’ imbarazzato.

“Ma è il suo soprannome, no?!”, risposi un po’ seccato con fare da saputello.

“Ma non era l’Iguana?” aggiunse Alberto.

Seguì un colpo al cuore: “Cazzo sì, certo. Ma che pirla, come ho potuto sbagliare?!”, dissi rosso di vergogna, cospargendomi il capo di cenere.

Alla fine l’errore venne corretto in extremis e il pezzo uscì senza problemi. Risparmiando al giornale e, soprattutto, a me stesso quella che Emilio Fede definirebbe: “Una figura di m… storica!”.

Dylan e Stones, tornano i grandi vecchi

di Diego Perugini

Se c’è qualcosa di positivo (musicalmente parlando) in tutto questo marasma in cui ci siamo ritrovati, è il ritorno di due nomi storici del rock, Bob Dylan e Rolling Stones. Un ritorno a piccolissime dosi, distillato in pochi singoli. Due per il cantautore americano e uno per la band inglese. Con un approccio, per altro, molto diverso.

Dylan ha scelto una via intellettuale e poetica, mescolando ricordi storici, confessioni private, memorie letterarie e citazioni assortite in due pezzi, la fluviale “Murder Most Foul” (16 minuti circa) e la più stringata “I Contain Moltitudes”. Canzoni non canzoni, se mi si passa il termine, spesso recitate sullo sfondo di uno scarno (ma suggestivo) tappeto sonoro. Nessuna concessione a ritornelli orecchiabili e facili letture, e infatti i critici si sono scatenati a interpretare i versi (non di rado oscuri) e ricondurli alla nostra attualità disgraziata. Canzoni per niente facili, comunque, che richiedono attenzione e una buona conoscenza dell’inglese (o un’altrettanto buona traduzione).

Molto più immediato lo stile di Jagger & soci, che in “Living in A Ghost Town” esplicitano il disagio della solitudine coatta nelle nostre città fantasma in un pezzo diretto ed emozionale, dal testo semplice e lineare, intriso di sapori funky, reggae e blues. Un brano molto “stoniano”, dal sound familiare e inconfondibile, corredato da un video fatto di inquietanti strade vuote. Sguardi diversi, quelli di Dylan e degli Stones, su un momento storico inatteso e sconvolgente, piccole ancore di salvezza per il nostro quotidiano da reclusi.