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Blinded By The Light, in arrivo nelle sale italiane il film con le musiche di Bruce Springsteen
Blinded By The Light, locandina

di Diego Perugini

Molti di noi devono qualcosa a Bruce Springsteen. Alla sua musica, alla sua poetica, al suo essere “uno di noi” nonostante lo status di rockstar mondiale. Ricordo ancora la mia “prima volta”: avevo 12 anni e con mio cugino più grande Antonio giravo Milano alla disperata ricerca di “Born To Run”, recensito con entusiastici toni dal vecchio “Ciao 2001”. Non lo trovavo, era esaurito, finché in un negozio sotto la Galleria vidi in vetrina quella magica copertina in b/n con Bruce e Clarence spalla a spalla. Sorriso a 32 denti e acquisto immediato. Per poi entrare per sempre nel mondo del Boss. E da lui ricevere strada facendo tante emozioni e, perché no, piccole grandi lezioni di vita.

“Blinded By The Light”, film in uscita il 29 agosto, racconta una storia (vera) di dedizione per il Boss nell’Inghilterra proletaria anni Ottanta (Luton), fra il pop elettronico dell’epoca, le capigliature cotonate, i look da “new romantic”, la politica restrittiva della Thatcher e il razzismo muscolare del National Front. Al centro c’è un adolescente di origini pakistane chiuso fra mille difficoltà, personali e non: un amico gli farà conoscere il rock di Springsteen e, attraverso i suoi testi, troverà in se stesso la forza di andare avanti, scoprire la propria identità, sconfiggere i pregiudizi e raggiungere i suoi obiettivi. Perché il Boss parla della gente comune, del lavorare sodo, ti incoraggia a non mollare e a inseguire i tuoi sogni. Un messaggio valido ieri come oggi.

Blinded By The Light, trailer

Il film gioca per lo più sui binari della commedia, con qualche sprazzo di musical e tante canzoni sparate a mille: impossibile non ritrovarsi in sala a canticchiare classici come “Thunder Road”, “The Promised Land”, “Badlands” e “Born To Run”. Non un capolavoro, per carità, ma un film onesto e piacevole, dove nel giro di un paio di (velocissime) ore si ride, si canta, ci s’indigna e ci si commuove. In più, fra le righe e con un pizzico di retorica, ritroviamo messaggi di pace, solidarietà, amore, antirazzismo e amicizia. Sarà anche poco, ma di questi tempi strani non può che fare bene. Proprio come la musica del Boss: salutare, energica, catartica. Che, a volte, ti cambia pure la vita. In meglio. Molto meglio.

“Western Stars”, il ritorno del Boss

Bruce Springsteen, "Western Stars", copertina
Bruce Springsteen, “Western Stars”

di Diego Perugini

Il nuovo cd di Bruce Springsteen, “Western Stars”, è uscito da pochi giorni. E sono curioso di vedere come sarà accolto dai fan. Perché è un album diverso, lontano dal classico rock muscolare a cui il Boss ci ha abituato. L’ho ascoltato in anteprima qualche settimana fa (qui il mio articolo su Metro) e mi ha subito conquistato. Qualche collega, ricordo, ha storto un po’ il naso, soprattutto per gli arrangiamenti ridondanti, il gran profluvio d’archi, la voce più “pulita” del solito. Questione di gusti.

Io sono dalla parte di questo “altro” Springsteen, poetico e romantico, persino un po’ pop, ma nel senso più nobile del termine. Con un sacco di rimandi a tanta bella musica del passato, dal crooner Roy Orbison (vecchio amore di Bruce, ricordate il testo di “Thunder Road”?) a cantautori melodici come Glen Campbell o Billy Joel.

E, poi, i testi. La “penna” di Bruce descrive mirabilmente una serie di personaggi fra viaggi in autostop, strade perse e ritrovate, solitudine e raggi di sole, spazi aperti e libertà, amore e redenzione. Con uno sguardo disincantato sull’America di ieri e di oggi, forse di domani.

I seguaci del “vecchio” Boss, ruvido e ruspante, magari ci rimarranno un po’ male ma il bello sta proprio nella forza di un artista che sa cambiare e reinventarsi, senza tradire se stesso. Non è la prima volta, del resto, che Springsteen ci spiazza.

Ricordo, tanti anni fa, il giorno in cui uscì “Nebraska”: andai a Milano, solito negozio New Kary in via Torino, e l’acquistai a scatola chiusa, senza aver letto anteprime o recensioni. Erano altri tempi, non c’era Internet e le informazioni non giungevano così copiose e in tempo reale come oggi. Arrivai a casa, misi il vinile sul piatto e partì il primo pezzo, acustico, solo voce e chitarra. Poi, il secondo, il terzo, il quarto. Niente rock, niente elettrica. “Sarà mica tutto così?!” mi domandai preoccupato. Era tutto così! All’inizio ci rimasi male, poi quel disco scarno e notturno cominciò a entrarmi dentro, giorno dopo giorno. Per restarvisi a lungo.

Una situazione analoga accadde più in là nel tempo, anno di grazia 1987. Alle spalle Bruce aveva un disco epocale come “Born In The Usa”, pimpante e roboante, che per la prima volta lo aveva portato live in Italia: San Siro, Milano, 21 giugno 1985. Io c’ero, nel prato sotto un sole cocente. Indimenticabile.

Per il suo successore ci si aspettavano altri botti a tutto rock, invece uscì “Tunnel Of Love”, disco assai più morbido e malinconico, riflesso di una crisi esistenziale/amorosa, con sonorità ai confini del pop e grandi tappeti di tastiere. Anche lì sulle prime ci rimasi un po’ così, complici recensioni abbastanza cattivelle. Ma era questione di tempo: mi colpì l’atmosfera dolce-amara di “One Step Up”, con quel video con Bruce al bancone del bar. E, soprattutto, la ballatona d’amore “Tougher Than The Rest”, destinata a diventare uno dei miei pezzi preferiti del Boss. Quindi, piccolo consiglio: ascoltate “Western Stars” con calma e senza pregiudizi. Sarà bellissimo.

Bruce Springsteen, "Western Stars", ritratto
Bruce Springsteen, “Western Stars”