Anche John Mellencamp è uno dei miei artisti preferiti. Lo seguo da tempo immemore, da quando ancora si faceva chiamare Cougar, agli inizi di carriera.
L’ho conosciuto, come tanti, grazie a un singolo irresistibile come “Jack & Diane”, ballata rock dal tempo spezzettato e con un giro di chitarra inconfondibile, racconto di una storia d’amore fra giovani di belle speranze.
Era contenuta in “American Fool”, disco del lontano 1982, che partiva col rock tirato di “Hurt So Good” e si chiudeva col lento riflessivo di “Weakest Moments”, con la suggestiva voce roca in evidenza.
Mi piacque molto, qualche anno dopo, anche “Scarecrow”, non fosse altro che per quel gioiello di “Small Town”, manifesto autobiografico a colpi di rock. E, poi, la copertina iconica: credo di essermi comprato un giubbino di jeans (che poi ho indossato pochissimo) solo per somigliarli un po’.
Tra i capolavori pure “The Lonesome Jubilee”, anno di grazia 1987, con una serie di pezzi bomba come “Paper In Fire”, “Cherry Bomb” e “Check It Out”.
Poco dopo il nostro avrebbe dismesso per sempre il nomignolo Cougar per essere solo (si fa per dire) John Mellencamp e andare avanti per la sua strada con altre opere di valore. Per un certo periodo di tempo, l’ho addirittura preferito a Springsteen, il suo contraltare su larga scala.
Non l’ho mai incontrato né intervistato. E, forse, meglio così perché dicono che abbia un caratterino non proprio conciliante. L’ho visto in concerto una volta sola: il 9 luglio 2011 a Vigevano. E fu una mezza delusione.
Prima del concerto venne proiettato un lungo documentario, che poteva anche essere interessante, ma non in quel contesto, con la gente in piedi dal pomeriggio in trepida attesa. Così lo spettacolo iniziò tardi e finì presto. Bello ma troppo breve, freddino e un po’ tirato via, senza bis. Peccato.
Ciò non toglie che quel che fa Mellencamp mi interessa sempre, ieri come oggi. Eccomi, perciò, a raccontarvi del suo nuovo album, “Strictly A One-Eyed Jack”, uscito da qualche giorno.
La prima cosa che colpisce è la voce. Ancor più roca del solito, tanto da ricordare il vecchio Tom Waits (ma anche Dylan, a dirla tutta). Il suono è sobrio, molto americano e molto virato sull’acustico, col violino spesso in evidenza.
Ci sono le sfumature blues di “I Am a Man That Worries”, una ballata pianistica un po’ jazzata come “Gone So Soon” (con solo di tromba), il vivace country-rock di “Lie to Me”. E ci sono, soprattutto, i pezzi in duetto con Bruce Springsteen, incontro che chiude il cerchio e riunisce due vecchi eroi del rock a stelle-e-strisce.
Il più immediato è “Did You Say Such A Thing”, pimpante (e polemico) rock chitarristico che rimanda a vecchie hit di Mellencamp, con le due voci ben assortite a scagliarsi contro la moda sempreverde del pettegolezzo.
“Wasted Days” è più lenta e folkeggiante, molto melodica, mentre “A Life Full of Rain”, ballatona esistenziale venata di pessimismo cosmico, chiude il disco su atmosfere più meditabonde.
Un testo, quest’ultimo, che riassume l’umore non proprio solare del Mellencamp attuale. Che nei brani con parole dure e sguardo cupo riflette sul tempo che passa, i sogni infranti, le falsità del nostro tempo, la mortalità e la solitudine di tutti noi.
Non proprio un allegrone, insomma. Eppure il disco scorre via, si lascia ascoltare con piacere e spesso colpisce al cuore, per sincerità e buone intenzioni.
Se vi piace il genere, accomodatevi.
Altrimenti fra qualche giorno inizia Sanremo.