Si parla di Musica! (e non solo)

Tag: Bruce Springsteen

Il nuovo disco di John Mellencamp (con la complicità del Boss)

E' uscito “Strictly A One-Eyed Jack”, il nuovo disco di John Mellencamp. Suoni fra country e rock, con ospite Bruce Springsteen in tre pezzi. Di Diego Perugini

Anche John Mellencamp è uno dei miei artisti preferiti. Lo seguo da tempo immemore, da quando ancora si faceva chiamare Cougar, agli inizi di carriera.

L’ho conosciuto, come tanti, grazie a un singolo irresistibile come “Jack & Diane”, ballata rock dal tempo spezzettato e con un giro di chitarra inconfondibile, racconto di una storia d’amore fra giovani di belle speranze.

Era contenuta in “American Fool”, disco del lontano 1982, che partiva col rock tirato di “Hurt So Good” e si chiudeva col lento riflessivo di “Weakest Moments”, con la suggestiva voce roca in evidenza.

Mi piacque molto, qualche anno dopo, anche “Scarecrow”, non fosse altro che per quel gioiello di “Small Town”, manifesto autobiografico a colpi di rock. E, poi, la copertina iconica: credo di essermi comprato un giubbino di jeans (che poi ho indossato pochissimo) solo per somigliarli un po’.

Tra i capolavori pure “The Lonesome Jubilee”, anno di grazia 1987, con una serie di pezzi bomba come “Paper In Fire”, “Cherry Bomb” e “Check It Out”.

Poco dopo il nostro avrebbe dismesso per sempre il nomignolo Cougar per essere solo (si fa per dire) John Mellencamp e andare avanti per la sua strada con altre opere di valore. Per un certo periodo di tempo, l’ho addirittura preferito a Springsteen, il suo contraltare su larga scala.

Non l’ho mai incontrato né intervistato. E, forse, meglio così perché dicono che abbia un caratterino non proprio conciliante. L’ho visto in concerto una volta sola: il 9 luglio 2011 a Vigevano. E fu una mezza delusione.

Prima del concerto venne proiettato un lungo documentario, che poteva anche essere interessante, ma non in quel contesto, con la gente in piedi dal pomeriggio in trepida attesa. Così lo spettacolo iniziò tardi e finì presto. Bello ma troppo breve, freddino e un po’ tirato via, senza bis. Peccato.


Ciò non toglie che quel che fa Mellencamp mi interessa sempre, ieri come oggi. Eccomi, perciò, a raccontarvi del suo nuovo album, “Strictly A One-Eyed Jack”, uscito da qualche giorno.

La prima cosa che colpisce è la voce. Ancor più roca del solito, tanto da ricordare il vecchio Tom Waits (ma anche Dylan, a dirla tutta). Il suono è sobrio, molto americano e molto virato sull’acustico, col violino spesso in evidenza.

Ci sono le sfumature blues di “I Am a Man That Worries”, una ballata pianistica un po’ jazzata come “Gone So Soon” (con solo di tromba), il vivace country-rock di “Lie to Me”. E ci sono, soprattutto, i pezzi in duetto con Bruce Springsteen, incontro che chiude il cerchio e riunisce due vecchi eroi del rock a stelle-e-strisce.

Il più immediato è “Did You Say Such A Thing”, pimpante (e polemico) rock chitarristico che rimanda a vecchie hit di Mellencamp, con le due voci ben assortite a scagliarsi contro la moda sempreverde del pettegolezzo.

“Wasted Days” è più lenta e folkeggiante, molto melodica, mentre “A Life Full of Rain”, ballatona esistenziale venata di pessimismo cosmico, chiude il disco su atmosfere più meditabonde.

Un testo, quest’ultimo, che riassume l’umore non proprio solare del Mellencamp attuale. Che nei brani con parole dure e sguardo cupo riflette sul tempo che passa, i sogni infranti, le falsità del nostro tempo, la mortalità e la solitudine di tutti noi.

Non proprio un allegrone, insomma. Eppure il disco scorre via, si lascia ascoltare con piacere e spesso colpisce al cuore, per sincerità e buone intenzioni.

Se vi piace il genere, accomodatevi.

Altrimenti fra qualche giorno inizia Sanremo.

Thunder Road

"Thunder Road", recensione film su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini. Esclusiva RaiPlay

USA, 2018. Commedia, 91′. Di e con Jim Cummings. Esclusiva RaiPlay

Il titolo si riferisce alla famosa canzone di Bruce Springsteen (che nel film non si sente mai) e al suo messaggio di fuga in cerca di un mondo migliore. Al centro c’è la figura di un poliziotto in crisi, bastonato dalla vita, che cerca disperatamente di restare a galla. Non sarà facile. Prova d’autore/attore totalizzante di Jim Cummings, a volte un po’ sopra le righe, ma sincero in questo racconto in equilibrio fra dramma e commedia. Avvertenza: i primi minuti (un elogio funebre sui generis) sono davvero particolari. Ma spiegano già molto.

Ascolti d’autunno, da Springsteen a Bianconi

La musica è bella (anche) perché è varia. E ti permette di viaggiare fra stili e generi, sempre che si sia dotati di buona apertura mentale. Ci pensavo ascoltando due dischi così diversi in uscita di questi tempi: “Forever”, il debutto solista di Francesco Bianconi, e “Letter For You” di Bruce Springsteen.

Un accostamento che, forse, scandalizzerà qualcuno, ma tant’è. Dischi molto diversi, si diceva. Quasi antitetici già a partire dalla loro genesi. Springsteen torna col gruppo storico, la E Street Band, mentre Bianconi molla i suoi Baustelle, almeno temporaneamente.

Continua a leggere

ANTEPRIMA: “Blinded By The Light”, il film con le musiche del Boss

Blinded By The Light, in arrivo nelle sale italiane il film con le musiche di Bruce Springsteen
Blinded By The Light, locandina

di Diego Perugini

Molti di noi devono qualcosa a Bruce Springsteen. Alla sua musica, alla sua poetica, al suo essere “uno di noi” nonostante lo status di rockstar mondiale. Ricordo ancora la mia “prima volta”: avevo 12 anni e con mio cugino più grande Antonio giravo Milano alla disperata ricerca di “Born To Run”, recensito con entusiastici toni dal vecchio “Ciao 2001”. Non lo trovavo, era esaurito, finché in un negozio sotto la Galleria vidi in vetrina quella magica copertina in b/n con Bruce e Clarence spalla a spalla. Sorriso a 32 denti e acquisto immediato. Per poi entrare per sempre nel mondo del Boss. E da lui ricevere strada facendo tante emozioni e, perché no, piccole grandi lezioni di vita.

“Blinded By The Light”, film in uscita il 29 agosto, racconta una storia (vera) di dedizione per il Boss nell’Inghilterra proletaria anni Ottanta (Luton), fra il pop elettronico dell’epoca, le capigliature cotonate, i look da “new romantic”, la politica restrittiva della Thatcher e il razzismo muscolare del National Front. Al centro c’è un adolescente di origini pakistane chiuso fra mille difficoltà, personali e non: un amico gli farà conoscere il rock di Springsteen e, attraverso i suoi testi, troverà in se stesso la forza di andare avanti, scoprire la propria identità, sconfiggere i pregiudizi e raggiungere i suoi obiettivi. Perché il Boss parla della gente comune, del lavorare sodo, ti incoraggia a non mollare e a inseguire i tuoi sogni. Un messaggio valido ieri come oggi.

Blinded By The Light, trailer

Il film gioca per lo più sui binari della commedia, con qualche sprazzo di musical e tante canzoni sparate a mille: impossibile non ritrovarsi in sala a canticchiare classici come “Thunder Road”, “The Promised Land”, “Badlands” e “Born To Run”. Non un capolavoro, per carità, ma un film onesto e piacevole, dove nel giro di un paio di (velocissime) ore si ride, si canta, ci s’indigna e ci si commuove. In più, fra le righe e con un pizzico di retorica, ritroviamo messaggi di pace, solidarietà, amore, antirazzismo e amicizia. Sarà anche poco, ma di questi tempi strani non può che fare bene. Proprio come la musica del Boss: salutare, energica, catartica. Che, a volte, ti cambia pure la vita. In meglio. Molto meglio.

Il Jukebox di Max Weinberg

di Diego Perugini

Max Weinberg live

“Non è un concerto, ma una festa”. Così Max Weinberg definisce il suo Jukebox, un live con cui sta girando il mondo in attesa di riprendere il suo posto dietro i tamburi della E Street Band. Sì, perché per quei pochi che non lo sapessero, il 68enne Max è lo storico batterista di Springsteen. Un nome, una garanzia.

Il Jukebox in questione è una sorta di storia del r’n’r condensata in un’oretta e mezza di sfrenato divertimento: Max ha in scaletta una lista di 200 classici, che scorrono sullo schermo senza soluzione di continuità, il pubblico sceglie quali suonerà.

Prima del concerto ci si domanda in che modo funzionerà la selezione: sul web, su Instagram, su Facebook? Ma no, molto più alla buona. Si corre sotto il palco e si urla il titolo preferito.

L’atmosfera è casalinga, semplice e ruspante, ma  “there’s magic in the night”, complice la suggestiva cornice del Castello Sforzesco illuminato a sera, una di quelle cose che ti rendono fiero della tua Milano.

Max, di nero vestito, è buon anfitrione, scherza e parlicchia in italiano, dichiara il suo amore per la città meneghina, foriera di ricordi di memorabili notti springsteeniane. A un certo punto, addirittura, scende dal palco e si fa il classico bagno di folla, circondato dall’affetto dei fan.

Con lui in scena un pugno di validi professionisti, che scavano nella memoria del rock. Beatles, Ramones, Dylan, Costello, Who, Steppenwolf, Chuck Berry e via suonando.

Una sorta di cover band extralusso, con al centro lo stile tosto ed efficace di Weinberg, senza fronzoli ma con un invidiabile tiro. Poi è chiaro che son tutti lì per sentire i pezzi del Boss: Max lo sa benissimo e non si tira indietro.

Si comincia con “Pink Cadillac” per scaldare subito gli animi, ma le botte al cuore arrivano con “Tenth Avenue Freeze-Out” e soprattutto “Thunder Road”, cantata a squarciagola dalla platea. Chiusura in gloria con “Glory Days”, fan sul palco e coro all’unisono.

E prima di congedarsi Max promette che tornerà presto con Bruce e la E Street Band. Ci sarà da divertirsi, insomma. Ancora una volta.

p.s. qui info sui prossimi concerti italiani:

Sab 20 luglio – Reggio Calabria, Fatti di Musica Festival

Mar 23 luglio – Roma, Casa del Jazz


“Western Stars”, il ritorno del Boss

Bruce Springsteen, "Western Stars", copertina
Bruce Springsteen, “Western Stars”

di Diego Perugini

Il nuovo cd di Bruce Springsteen, “Western Stars”, è uscito da pochi giorni. E sono curioso di vedere come sarà accolto dai fan. Perché è un album diverso, lontano dal classico rock muscolare a cui il Boss ci ha abituato. L’ho ascoltato in anteprima qualche settimana fa (qui il mio articolo su Metro) e mi ha subito conquistato. Qualche collega, ricordo, ha storto un po’ il naso, soprattutto per gli arrangiamenti ridondanti, il gran profluvio d’archi, la voce più “pulita” del solito. Questione di gusti.

Io sono dalla parte di questo “altro” Springsteen, poetico e romantico, persino un po’ pop, ma nel senso più nobile del termine. Con un sacco di rimandi a tanta bella musica del passato, dal crooner Roy Orbison (vecchio amore di Bruce, ricordate il testo di “Thunder Road”?) a cantautori melodici come Glen Campbell o Billy Joel.

E, poi, i testi. La “penna” di Bruce descrive mirabilmente una serie di personaggi fra viaggi in autostop, strade perse e ritrovate, solitudine e raggi di sole, spazi aperti e libertà, amore e redenzione. Con uno sguardo disincantato sull’America di ieri e di oggi, forse di domani.

I seguaci del “vecchio” Boss, ruvido e ruspante, magari ci rimarranno un po’ male ma il bello sta proprio nella forza di un artista che sa cambiare e reinventarsi, senza tradire se stesso. Non è la prima volta, del resto, che Springsteen ci spiazza.

Ricordo, tanti anni fa, il giorno in cui uscì “Nebraska”: andai a Milano, solito negozio New Kary in via Torino, e l’acquistai a scatola chiusa, senza aver letto anteprime o recensioni. Erano altri tempi, non c’era Internet e le informazioni non giungevano così copiose e in tempo reale come oggi. Arrivai a casa, misi il vinile sul piatto e partì il primo pezzo, acustico, solo voce e chitarra. Poi, il secondo, il terzo, il quarto. Niente rock, niente elettrica. “Sarà mica tutto così?!” mi domandai preoccupato. Era tutto così! All’inizio ci rimasi male, poi quel disco scarno e notturno cominciò a entrarmi dentro, giorno dopo giorno. Per restarvisi a lungo.

Una situazione analoga accadde più in là nel tempo, anno di grazia 1987. Alle spalle Bruce aveva un disco epocale come “Born In The Usa”, pimpante e roboante, che per la prima volta lo aveva portato live in Italia: San Siro, Milano, 21 giugno 1985. Io c’ero, nel prato sotto un sole cocente. Indimenticabile.

Per il suo successore ci si aspettavano altri botti a tutto rock, invece uscì “Tunnel Of Love”, disco assai più morbido e malinconico, riflesso di una crisi esistenziale/amorosa, con sonorità ai confini del pop e grandi tappeti di tastiere. Anche lì sulle prime ci rimasi un po’ così, complici recensioni abbastanza cattivelle. Ma era questione di tempo: mi colpì l’atmosfera dolce-amara di “One Step Up”, con quel video con Bruce al bancone del bar. E, soprattutto, la ballatona d’amore “Tougher Than The Rest”, destinata a diventare uno dei miei pezzi preferiti del Boss. Quindi, piccolo consiglio: ascoltate “Western Stars” con calma e senza pregiudizi. Sarà bellissimo.

Bruce Springsteen, "Western Stars", ritratto
Bruce Springsteen, “Western Stars”