Conosco i La Crus da molto tempo. Dal giorno in cui un amico/collega mi passò un’audiocassetta demo con l’anteprima del primo album, “La Crus”, appunto. Quello, per capirci, che conteneva gioiellini come “Nera signora”, “La giostra” e la preziosa cover di “Il vino” di Piero Ciampi.
L’ascoltavo spesso e volentieri, mi sembrava qualcosa di nuovo, che però al tempo stesso solleticava il mio mai sopito amore per la nostra canzone d’autore.
Dovrei averla ancora da qualche parte, assieme ai nastri dei Carnival of Fools (ma questa è un’altra storia).
Poi li intervistai e li vidi in concerto tante volte, capitava anche di beccarsi in giro da qualche parte, nella Milano frizzante degli anni 90. Ricordo che Giò aveva una graziosa fidanzata che lavorava al teatro Smeraldo e andava a prendere a fine serata. Io spesso gravitavo là per lavoro e finivamo sempre a scambiarci qualche chiacchiera notturna. Altri tempi.
Più di recente, anzi, molto più di recente li ho ascoltati nella reunion all’Elfo Puccini del gennaio 2020, giusto un mesetto prima dell’onda maligna Covid. Fu una bella serata, di ricordi e ottima musica, per nulla scalfita dal passare degli anni.
Mi fa piacere ritrovarli ora con un nuovo lavoro, “Proteggimi da ciò che voglio”, uscito da una settimana. Un piccolo disco, se non altro per la durata contenuta, una mezz’oretta, con otto inediti e un paio di ripescaggi dal passato (con ospiti).
Lo stile del gruppo è immediatamente riconoscibile, senza troppe deviazioni dalla via maestra. O, peggio, concessioni al (cattivo) gusto contemporaneo.
Cesare Malfatti è un architetto sonoro dal tocco inconfondibile e Giò, come sempre, canta benissimo, con quella voce profonda che sa come dare peso alle parole. Parole, scritte da Alessandro Cremonesi, che mescolano pubblico e privato, politico e poetico, in una serie di “canzoni polietiche”, come loro amano definirle.
I La Crus parlano del nostro mondo e ne denunciano le contraddizioni e le negatività, dalla follia dei social all’alienazione lavorativa che ci ruba il tempo e l’anima. Ma non c’è retorica, presunzione o faciloneria, semmai uno sguardo lieve e sofferto, con un barlume di speranza nella sempiterna forza dell’amore.
Ecco, allora, l’evocativa malinconia di “La pioggia”, uno dei nuovi migliori pezzi, accanto al blues moderno (un po’ alla Depeche Mode) di “Mangia dormi lavora ripeti” e alla melodia vincente della “title-track”.
“Shitstorm” è ballata lenta e ariosa, di bella suggestione, mentre “La rivoluzione” è più incalzante e declamatoria, con interventi parlati ad hoc. “Discronia” vanta un tiro orecchiabile e sfumature di tromba, “Stella” è un recitativo pensoso che guarda al cosmo intorno a noi.
Chiudono il cerchio due ricordi rivisitati: “io confesso” con Carmen Consoli e “Come ogni volta” (il loro capolavoro?) con Colapesce e Dimartino.
Bentornati, insomma. Anche in concerto: appuntamento il 10 maggio alla Santeria Toscana 31, Milano. Poi, si vedrà.