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Davide Van De Sfroos agli Arcimboldi

Davide Van De Sfroos agli Arcimboldi. Il cantautore laghéee è passato da Milano col tour di "Manoglia". A novembre tornerà al Forum di Assago

C’è un bel tutto esaurito agli Arcimboldi per Davide Van De Sfroos.

Segno che non è solo tempo di cassa dritta, autotune, urban, trap et similia. Quello che arriva dal palco del teatro meneghino, spoglio ed essenziale, è un suono caldo e popolare, il che non significa chiassoso o cafone. Tutt’altro.

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C’è anzi una raffinatezza poetica ed evocativa nel discorso del cantautore laghée, in equilibrio fra folk e blues, country e rock, con fisarmonica e violino in evidenza. E, persino, qualche gradita sfumatura etnica.

Un recital d’altri tempi. Senza video ed effetti speciali, con solo un ricco corredo di luci a sottolineare momenti ed emozioni.

Van De Sfroos siede davanti a un leggio, chitarra acustica fra le braccia, intorno a lui i fidi musicisti, con citazione di merito per il funambolico Anga Galiano Persico.

Racconta le sue storie di provincia e certi personaggi unici, i ricordi sparsi qua e là, le memorie nostalgiche che fanno da contraltare a un mondo brutto in cui si fa fatica a ritrovarsi.

C’è il nuovo disco “Manoglia”, giocato su atmosfere acustiche, a prendersi il giusto spazio in scaletta.

La speranza nascosta dietro le pieghe di una metafora in “El mekanik”; il sarcasmo verso social e dintorni nella jazzata “Forsi”; l’aspirazione verso una rinascita di “Crisalide”, canzone per certi versi terapeutica.

Non mancano i vecchi classici, in cui il pubblico si lascia andare a catartici battimani e coretti.

“Yanez”, rimembranza di un Sanremo lontano, viene riletta in chiave irlandese, mentre “Gira gira” incontra il reggae di Bob Marley. “Nona Lucia” è il solito irresistibile country, veloce e divertente, al contrario di “New Orleans”, dolente e toccante ballata sui danni dell’uragano Katrina.

Fino a “El mustru”, uno di quei pezzi forti che lo mettono quasi a disagio e lo spingono alla commozione.

Due ore abbondanti di live, che si chiudono in bellezza coi bis.

L’incedere avvolgente, da cantilena, di “Akuaduulza” e poi “töcc in sö la curiera” verso nuove avventure e altri concerti.

Come quello, già annunciato, del 23 novembre al Forum di Assago, biglietti in vendita da oggi. Intanto il tour teatrale va avanti sino ad aprile, qui tutte le info.

Il vecchio amico Omar

Domani ai Magazzini Generali, già sold out, arriva Omar Pedrini con una serata speciale dedicata al suo album "Che ci vado a fare a Londra?"

Ci sono degli artisti con cui ti trovi di più. Per questioni di gusti musicali, affinità elettive, percorsi in comune. Non dico degli amici, ma quasi.

Uno di questi, per me, è Omar Pedrini.

Ogni volta che lo incontro, ormai piuttosto di rado, mi fa molto piacere. L’ultima occasione, qualche anno fa all’uscita di un cinema, poco prima del terremoto Covid, mi regalò un abbraccio e un sorriso.
Che ricambiai sinceramente.

Vi sono affezionato probabilmente anche perché Omar mi ricorda i miei inizi. Anzi, in pratica, sia io che lui abbiamo cominciato le rispettive carriere nello stesso momento.

Era all’incirca la metà degli anni 80. Io, qualche anno più grande, cercavo di farmi strada nel mondo del giornalismo, lui in quello assai più glamour del rock coi suoi Timoria.

C’era, ovviamente, anche Francesco Renga, che all’epoca portava i capelli corti ed era senza barba. Quasi irriconoscibile.

Eravamo giovani e incoscienti (si fa per dire), in un momento elettrico e stimolante per tutti. Ci incontravamo spesso, fra concerti e interviste. C’era un bel feeling, insomma.

Ricordo che recensii positivamente su “L’Unità” il loro singolo “Non sei più tu”, che mi piaceva soprattutto per una passionale cover della storica “Pugni chiusi”.

Mi regalarono pure la foto originale da cui venne tratta la copertina del disco di debutto, “Colori che esplodono”. Devo ancora averla da qualche parte.

Poi le nostre strade, ovviamente, hanno preso direzioni diverse. E Omar ne ha vissute di ogni, dalla dolorosa separazione da Renga a pesanti problemi di cuore (nel vero senso della parola). E molto altro ancora.

Ma ha tenuto duro e sono contento di saperlo domani di nuovo protagonista di un concerto “tutto esaurito” ai Magazzini Generali di Milano.

Sarà una specie di festa dedicata ai dieci anni di “Che ci vado a fare a Londra?”, disco della rinascita dopo un periodo buio, col piccolo aiuto di un mito come Noel Gallagher degli Oasis.

Album che, fra parentesi, venerdì uscirà per la prima volta in vinile e domani sarà possibile acquistare autografato al concerto (la nuova versione digitale, invece, conterrà due bonus tracks).

Il futuro? Ancora un paio di concerti e poi un po’ di tranquillità, almeno così dice lui, per i soliti problemi di salute.

Anche se, conoscendolo, non sarà facile tenerlo lontano dal palco.

Alla prossima, Omar. E, come sempre, in bocca al lupo!

Il ritorno di Elio e le Storie Tese

Due sere da tutto esaurito agli Arcimboldi per Elio e le Storie Tese. Il ritorno di cari vecchi amici. Ancora maledettamente in forma. Recensione di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it
EelST live 2023, foto di Francesca Gaudenzi

E’ stato come ritrovare dei vecchi amici. Di quelli che hai perso di vista da un po’ e rivedi sempre con piacere.

Con la sorpresa di ritrovarli in forma e belli arzilli, nonostante il tempo che passa e le mode che cambiano.

Loro no. Elio e le Storie Tese rimangono quelli di un tempo, con le loro follie “zappiane” e le provocazioni a fior di pelle, gli scherzi musicali e la satira sul pazzo mondo che ci gira intorno.

In questo ”Mi resta un solo dente e cerco di riavvitarlo”, approdato per due sere da “tutto esaurito” agli Arcimboldi, i nostri (di bianco vestiti) raccontano la Terra dei Cachi 2023 con le sue contraddizioni e le sue assurdità.

Come, per esempio, premiare il comico Pucci con l’Ambrogino d’oro: “Noi l’avremmo dato a Mangoni!” ripetono dal palco. E come dar loro torto?

Siamo in teatro e lo spettacolo è, appunto, teatrale.

Quindi fitto di monologhi e introduzioni, canzoni spiegate e siparietti divertiti e divertenti. Si ride spesso e volentieri.

Delle favole surreali in “Uomini col borsello” o della realtà dei “due di picche” che tutti abbiamo collezionato nella sempre strepitosa “Servi della gleba”.

Ma c’è pure la critica sociale di “La follia della donna”, “Storia di un bellimbusto” e “Parco Sempione”, a stigmatizzare una società di smanie modaiole, culto dell’effimero e speculazioni edilizie.

Elio e soci raccontano tutto questo e molto di più, col sorriso sulle labbra e l’assolo in canna, come bravi virtuosi, mentre Mangoni irrompe da par suo con mise improbabili. Il pubblico urla, canta, partecipa.

Così viene voglia di ballare e scatenarsi sul ritmo dance di “Born to be Abramo”, sino alla consueta apoteosi collettiva di “Tapparella”, canzone-manifesto che da tempo immemore conclude le esibizioni del gruppo.

La dannata festa delle medie, l’emarginazione e i desideri frustrati, un sogno finale di libertà e partecipazione. Massì, diciamolo: un capolavoro.

E, allora, una volta di più: “Forza Panino!”.

foto di Francesca Gaudenzi

p.s. il tour prosegue sino al 21 dicembre: qui tutte le date.

Martha Wainwright al Castello Sforzesco

Martha Wainwright al Castello Sforzesco. Pochi ma buoni al concerto milanese dell'artista canadese. In scaletta originali e cover di rango. La recensione di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

E’ un’artista di culto. E, come tale, non richiama folle oceaniche ai concerti.

Però mi ha fatto un po’ male vedere solo poche decine di spettatori per Martha Wainwright, unica data italiana, al Castello Sforzesco di Milano per la consueta rassegna estiva.

Come se, ne parlavo a fine serata col valido collega Marziano, da noi il mercato del live si fosse polarizzato: o eventi da stadio o situazioni di nicchia. Con la classica via di mezzo a rischio estinzione.

Ma è un discorso lungo e articolato, che magari faremo in altra occasione.

Intanto i pochi ma buoni presenti si sono goduti una serata per certi versi memorabile.

Perché la cantautrice canadese (preceduta dal breve set della brava Roberta Di Lorenzo) ha una voce super, capace di impressionanti saliscendi emotivi e pirotecnici virtuosismi.

E perché ha dalla sua un repertorio di spessore, sia negli originali che nelle cover, reinterpretate con bravura e sensibilità.

E’ un concerto da piccolo club, molto teatrale: lei avvolta in un comodo vestitino bianco increspato, con chitarra acustica a tracolla e una piccola ma efficace band di supporto (tastiere, basso e batteria).

Si capisce che ama parlare e raccontarsi in tutte le sue sfaccettature. Così instaura subito un dialogo con l’esigua ma attenta platea.

Descrive la sua giornata milanese, il giro in centro, il Duomo, l’incontro con alcuni fan, la carta di credito che non funziona e non le permette di pagare il pranzo. E la bellezza del Castello Sforzesco illuminato per bene.

Entrando più nel personale parla della diversità dell’innamorarsi da giovani e da meno giovani, ma anche della sofferenza autobiografica di un divorzio.

Pian piano snocciola le sue canzoni, vecchie e nuove,“Love Will Be Reborn”, “Bleeding All Over You”, “Getting Older”, “Report Card”, “Body and Soul“ (e che vocalizzi nel finale!) con quel mix fra rock, folk, pop e canzone d’autore.

Con l’accompagnamento di sole tastiere omaggia la sua grande famiglia musicale. Ed è un momento fra i più toccanti.

“Dinner at Eight”, riflessione sul rapporto padre-figlio, è del fratello Rufus. La malinconica (e bellissima) “Tell My Sister” ricorda la mamma Kate McGarrigle (il papà, per chi non lo sapesse, è Loudon Wainwright III).

Verso la fine arrivano altre due cover, molto diverse, ma entrambe assai struggenti: “Take It with Me” di Tom Waits e “Dis, quand reviendras-tu?” di Barbara, con riminiscenze della “chanson” transalpina.

Serata per palati fini, gli assenti per una volta hanno avuto davvero torto.

Suzanne Vega a Villa Arconati

E’ un concerto un po’ diverso da quel che va oggi. Niente effetti speciali, niente grandeur da stadi, niente ruffianate ad hoc.

Sul palco di Villa Arconati, prima tappa del tour italiano, c’è una splendida (ultra)sessantenne con chitarra e cappello a cilindro, vestita di nero (perché, lo canterà poi, lei non veste mai di bianco) e con un gran bel repertorio alle spalle.

Quello di Suzanne Vega è un recital teatrale, anzi da piccolo club, lei da sola sul palco con l’acustica, aiutata all’elettrica da Gerry Leonard, che i più attenti ricorderanno alla corte di re Bowie.

E’ brava, molto brava, a creare con poche parole quell’atmosfera intima col pubblico, raccontare di amori di ieri e di oggi, occasioni perdute e piccoli grandi rimpianti, senza dimenticare la triste realtà del nostro presente di guerra.

Sfilano la classica “Marlene on the Wall”, l’agrodolce “In Liverpool”, l’incalzante “When Heroes Go Down”, che è pure una sorta di omaggio al genio di Elvis Costello (di cui inserisce, en passant, un accenno di “Lipstick Vogue”).

Alla situazione in Ucraina dedica un paio di momenti, “Rock in this Pocket” (rimembranza della biblica storia di Davide e Golia) e la nuova “Last Train to Mariupol”.

Platea assai attenta, anche al sovrastante cielo minaccioso di pioggia.

Suzanne tira avanti sfidando i tuoni e i nuvoloni, e sfodera le sue hit più celebri, dall’orecchiabile “Luka”, che ce la fece conoscere nel lontano 1987, alla più ritmata “Tom’s Diner”, dagli accenti funky.

Il bis, molto atteso da chi ha già sbirciato le scalette precedenti, è “Walk on the Wild Side”: la nostra fa il nome di Lou Reed e dal cielo arriva un brontolio.

“E’ lui che ci parla” dice sorridendo. E, per non deluderlo, ne propone una versione credibile e intensa.

Un altro pezzo ed è già tempo di chiudere, setlist un po’ tagliuzzata per evitare danni da temporale.

Pazienza. Rimane il ricordo di una bella serata con un’artista che è garanzia di grandi canzoni e buone, anzi ottime, vibrazioni.

E scusate se è poco.

Lucio Corsi all’Alcatraz!

Lucio Corsi arriva all'Alcatraz di Milano e sfodera oltre due ore fra glam rock e canzone d'autore. Uno dei migliori giovani artisti in circolazione.

Non solo poppettari da strapazzo o rappettari con l’autotune in canna. Per fortuna che fra i giovani di oggi c’è Lucio Corsi, uno che sa ancora come si imbraccia una chitarra. E, mirabile dictu, come si suona un’armonica.

Il quasi trentenne toscano, nonostante quel che dice la canzone, pare abbia deciso da tempo cosa farà da grande. Cioè il cantautore. E di quelli bravi.

L’ha dimostrato l’altra sera nelle due ore abbondanti di concerto in un Alcatraz meneghino a capienza ridotta, davanti al suo zoccolo duro (ancora troppo esiguo) di fan.

Ha l’aspetto gracile e magrissimo del Renato Zero degli inizi, inclusi capelli lunghi, cerone bianco sul volto e tutine attillatissime.

Ma nel suo cuore vibra l’amore per il glam rock anni 70 con le chitarrone schierate, il ritmo alto e la melodia a colpo sicuro. Zona Marc Bolan e primo Bowie, per capirci.

Con sé sul palco ha una folta banda di amici e ottimi musici ad assecondare le sue scorribande poetiche.

Il riff irresistibile di “Freccia bianca” apre e chiude un concerto di belle emozioni.

Dove spiccano la suggestione di “Trieste”, ballata alla Ivan Graziani sul potere del vento (“Da quel giorno per le strade di Trieste vive gente convinta/ Che il vento no, non era un freno, ma una spinta”), ma anche le novità dell’ultimo album, “La gente che sogna”.

Sfilano allora l’utopia fantastica di “Astronave Giradisco” o il desiderio di fuggire su un altro pianeta di “Radio Mayday”.

Sempre con quel linguaggio originale, fatto di immagini surreali, storie strane, atmosfere fiabesche, con un gusto piacevolmente rétro e fieramente fuori dalle mode.

In mezzo pure una lunga parentesi da solo in acustico, fra battute col pubblico e sorpresine assortite, per esempio l’esilarante inedito “Francis Delacroix” su un amico fanfarone (che sale sul palco) e un paio di cover dall’immenso Randy Newman.

A proposito di cover, il nostro rievoca i T-Rex di “20th Century Boy” e “Children Of The Revolution” ma anche il Lucio Battisti di “Un anno di più” (versione niente male, per altro), per far capire dove affondano le sue radici.

Fino all’apoteosi di “Cosa faremo da grandi?”, il suo piccolo grande capolavoro, che diventa una sorta di inno collettivo cantato a squarciagola.

Insomma, Lucio Corsi è uno che ha una marcia in più. E di più meriterebbe.

Per esempio uscire dall’area di culto e abbracciare un pubblico più ampio. Perché ha talento, carisma, sa stare sul palco, canta e scrive benissimo.

Anzi, piccola proposta disinteressata: portatelo a Sanremo.

In mezzo a tanti cialtroni male assortiti uno di talento come lui ci farebbe la sua porca figura.

Diteglielo ad Amadeus.

p.s. Prossime date del tour:
il 10 maggio al Monk a Roma (sold out), il 12 all’Hiroshima Mon Amour di Torino e il 13 al Locomotiv Club di Bologna (sold out).

Roger Waters al Forum!

Roger Waters al Forum. Quattro date sold out per l'ex Pink Floyd. Spettacolo tosto e molto politico. Ma con grande musica. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Si è scritto molto sul nuovo tour di Roger Waters, “This Is Not A Drill – His First Farewell Tour“, per quattro sere “esaurito” al Forum di Assago.

Forse perché è uno spettacolo così potente e ricco di stimoli da farti perdere la testa e uscire frastornato.

Tanto che per seguire tutto e avere cognizione esatta di quel che capita in scena bisognerebbe avere i poteri del Bowie alieno di “L’uomo che cadde sulla Terra” (quello che guardava decine e decine di programmi tv in contemporanea senza perdersi una virgola).

L’ex Pink Floyd ha ideato un magniloquente bailamme che mescola tecnologia spinta e passione umana, gli schermi giganti che trasmettono video e slogan senza soluzione di continuità e l’artista che snocciola spesso e volentieri a chiare parole la sua visione del mondo.

Non sempre condivisibile, magari, ma questo è un altro discorso, assai complesso e delicato. Che riguarda le intime opinioni di ognuno di noi.

E’ comunque un mondo brutto, se non ce ne fossimo già accorti, dominato da squilibri economici, guerre di convenienza, totalitarismi di ogni genere, poteri forti, multinazionali, censura e via dicendo.

Waters, dispensando generosamente “vaffanculo” a destra e a manca (ma in particolare alla politica degli Usa), ci racconta questo e tanto altro in uno show denso di musica ed effetti speciali, molto politico e molto contemporaneo, nonostante parecchia della musica suonata sia di vecchia, se non vecchissima data.

Del resto le ingiustizie e le storture del nostro sistema hanno origini e radici assai lontane. E di migliorie all’orizzonte se ne vedono poche.

La nuova e apocalittica versione di “Comfortably Numb” è solo l’inizio di un viaggio negli incubi del nostro presente, con rare concessioni alla nostalgia del tempo che fu (“Wish You Were Here” e poco altro) e solo un raggio di luce verso la fine, con l’esortazione ai grandi della Terra a riunirsi al “bar” dell’omonimo brano inedito, chiarirsi le idee e provare a cambiare le cose.

In mezzo, come direbbero i giovani, “tanta roba”, dispensata su un grande palco centrale con una passerella che ti porta gli artisti a due passi da te.

E il supporto di una folta band decisamente all’altezza della situazione.

In un paio d’ore ad alta tensione sfilano i brani da solista alternati alle botte al cuore del repertorio della storica band.

“Another Brick In The Wall” subito in scaletta, l’ultima sezione dell’infinita “Shine On You Crazy Diamond”, la potenza evocativa di “Sheep”, con l’esaltante giro di chitarra finale e la pecora gigante che vaga in alto sopra le teste degli spettatori (poco dopo arriverà pure il maialone).

La seconda parte vede Waters nei panni del gerarca di “The Wall”, spara col mitra sul pubblico, cavalca il ritmo incalzante di “Run Like Hell”.

Si distende infine sulla facciata B del magico “The Dark Side Of The Moon”. E quando arrivano “Brain Damage” ed “Eclipse” a chiudere il cerchio di quel capolavoro, c’è poco da fare. Se non commuoversi e applaudire.

Si replica a Bologna il 21, 28 e 29 aprile.

Ed è già tutto esaurito. Naturalmente.

Enzo Jannacci e quel concerto a Milano. Con la neve, tanti anni fa

Dieci anni dalla scomparsa di Enzo Jannacci. Il ricordo di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Leggendo le varie testimonianze su Jannacci a dieci anni dalla sua scomparsa, mi sono accorto di non averlo mai conosciuto bene.

Nel senso che l’ho incontrato poche volte, sempre di corsa o in qualche affollata cena o conferenza stampa, senza aver avuto l’occasione di fargli un’intervista per bene, de visu, come avrebbe meritato.

Probabilmente sarebbe stato qualcosa di memorabile, al netto di quel che avrei capito dato il suo famigerato modo estroso di parlare.

L’ultimo ricordo palpabile, semmai, è quello di un suo concerto, circa una ventina d’anni fa.

Una serata strana, surreale, con una Milano d’inverno sommersa da una tormenta di neve come ormai non capita più.

Il traffico va in tilt, quindi parcheggiamo alla meno peggio e ci facciamo un bel pezzo di strada a piedi per raggiungere il teatro. Siccome ci muoviamo sempre un po’ in anticipo, riusciamo ad arrivare in tempo.

Jannacci inizia il suo recital, canta un po’ di pezzi con la sua band, passa circa una mezz’ora, mentre la gente continua ad arrivare alla spicciolata fra ombrelli, giacconi, cappelli di lana e altri ammennicoli di stagione.

A un certo punto Enzo si ferma. E mormora qualcosa tipo: “E’ un peccato che tutta questa gente abbia perso l’inizio del concerto. E allora sai che facciamo? Ricominciamo tutto da capo”.

Penso sia una battuta. E, invece, lui riparte davvero da zero, lasciandoci attoniti.

Ho pochi altri ricordi di quello spettacolo. Se non che mi piacque molto, ma che era molto malinconico, ammantato da una forte vena di tristezza.

L’ufficio stampa, se la memoria non mi tradisce era la storica Monica Passoni, mi confidò che Enzo era molto giù dopo la recente scomparsa del suo amico fraterno Giorgio Gaber e non riusciva a non portare la sua afflizione sul palco. Tempi lontani.

Oggi però è bello vedere un fiorire di iniziative che portano avanti la sua poetica da varie angolazioni. Per esempio il libro “Ecco tutto qui” del figlio Paolo con Enzo Gentile; il recital di Elio al Lirico “Ci vuole orecchio”; lo spettacolo omaggio “Jannacciami!” il prossimo 3 giugno agli Arcimboldi.

E altro ancora che verrà.

Gianni Sassi, la Cramps e un concerto speciale

Se la musica che gira intorno non vi garba più di tanto, tenetevi liberi per la sera del 6 aprile. Sarà l’occasione buona per un tuffo nel passato remoto di suoni liberi e sperimentali, avventurosi e originali. Ieri come oggi.

L’appuntamento è al teatro Lirico Giorgio Gaber (a Milano, naturalmente) con “Cramps Records 1972 – 2022”, concerto unico e irripetibile per celebrare i 50 anni della Cramps, casa discografica ideata e fondata da Gianni Sassi.

Ma chi era Gianni Sassi?

Difficile riassumerlo in poche parole. Non a caso c’è chi, come il valido collega Giordano Casiraghi, gli ha dedicato un libro uscito da poco (“Gianni Sassi la Cramps & altri racconti”, Arcana, 2023).

Qui basti dire che era un geniale ed eclettico produttore (ma pure art director, fotografo, pubblicitario, editore, discografico, organizzatore di eventi e festival, imprenditore…), a cui si devono molti dei fermenti culturali della Milano (e non solo) anni ‘70.

All’epoca io ero troppo giovane per capire completamente quel che stava accadendo: ciononostante non mancai di comprare e divorare d’ascolti quel gioiello che fu “Diesel” di Eugenio Finardi, anno 1977, con la famosa copertina col guanto da baseball disegnata proprio da Sassi.

E poi mi innamorai perdutamente dei dischi degli Skiantos su etichetta Cramps, in particolare di “Kinotto”, un classico dei miei turbolenti anni di Liceo. Con pezzi di surreale genialità come “Mi piaccion le sbarbine”, “Gelati” e “Sono buono”.

Lo stesso Sassi fu anche l’organizzatore del famoso “Concerto per Demetrio”, a cui partecipai spinto dal passaparola e da una travolgente onda emotiva.

Non che avessi ben chiaro il lavoro di Stratos, Area e colleghi avanguardisti. Rimasi assai perplesso, per esempio, per la performance vocale di Giancarlo Cardini, subissato di fischi e improperi dai tanti che erano lì per ascoltare Venditti e la Pfm.

Tutte cose che apprezzai da grande col senno di poi.

Tornando al presente, lo spettacolo che andrà in scena al Lirico (qui i biglietti), diretto da Roberto Manfredi e presentato da Jo Squillo, sarà un corposo omaggio a Sassi e alle sue produzioni.

Oltre due ore di musica con due set di Patrizio Fariselli Area Open Project in quintetto: il primo interamente dedicato allo storico debutto degli Area “Arbeit Macht Frei”; il secondo con altri brani del repertorio Area e un ricordo di Franco Battiato, a chiusura di serata.

Eugenio Finardi omaggerà Gianni Sassi e John Cage, come farà anche Carlo Boccadoro. Gli Skiantos presenteranno pezzi legati al periodo Cramps, mentre Lucio Fabbri & Friends ricorderanno Demetrio Stratos, ma suoneranno inoltre “La Radio” e “Musica Ribelle” di Finardi. In scaletta pure Andrea Tich con estratti dall’album di culto “Masturbati”, del lontano 1978.

Il tutto mentre torna in circolazione la celebre rivista “Re Nudo” e più avanti uscirà il docufilm “Gianni Sassi – l’occhio, l’orecchio, la gola”, diretto dallo stesso Manfredi.

Nell’attesa in zona CityLife è già possibile fare quattro passi sulla passeggiata dedicata a Sassi, inaugurata pochi giorni fa. Non a caso si trova a accanto a quella per Demetrio Stratos. Un tributo più che dovuto.

Paolo Conte alla Scala: c’ero anch’io!

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Per una volta lo posso dire: c’ero anch’io. Perché quello di ieri sera è stato un evento nel vero senso della parola.

La prima volta di un artista pop (per modo di dire) alla Scala, tempio della lirica meneghino, con annesse risibili polemiche da parte dei soliti retrogradi bacchettoni. Come scrisse qualcuno di importante, non ti curar di loro ma guarda e passa.

E così s’è fatto, applaudendo di gusto il grande vecchio Paolo Conte su quel palco storico, in un passaggio che pare quasi un premio alla carriera.

Teatro strapieno, naturalmente, di vip e gente comune. Con tv e cronisti a caccia di dichiarazioni, a ricalcare il cliché mondano delle prime. Abiti eleganti, papillon e pailettes, ma anche semplici jeans e maglioncini.

E lassù in galleria, zona popolare di loggione e loggionisti, si son visti anche magliette e maniche corte, perché i posti sono strettissimi e fa un caldo boia.

L’unico dress code, insomma, pare quello dell’amore per la musica evocativa e immaginifica dell’artista astigiano.

Conte dispiega per l’ennesima volta il suo “spettacolo d’arte varia”, seduto al pianoforte o in piedi davanti al microfono, con la consueta corte di musici eccelsi.

Non si lascia intimidire da cotanto palco, indossa il solito abito scuro con maglietta in tinta, degli occhiali da sole e, quando ci vuole, non disdegna di suonare il suo “pernacchiante” kazoo.

Ci sono anche telecamere e ammennicoli tecnologici, che lasciano presagire film e album dal vivo in un futuro prossimo venturo.

La scaletta è già lì pronta ad uso e consumo di tutti, in una tipica locandina scaligera, come fossimo lì a vedere l’Aida o le Nozze di Figaro.

Invece c’è questo 86enne dalla voce roca e bassa, che dispensa i suoi classici come fossero bignè. A voler proprio trovare il pelo nell’uovo, potremmo dire che è un po’ il “solito” (e bellissimo) concerto che da qualche tempo il Nostro sta portando in giro per il mondo. Ma, per fortuna, con qualche piccola variazione sul tema.

E, come al solito, niente commenti o aneddoti, solo la presentazione dei musicisti, più qualche inchino di cortesia e ironiche mosse da direttore d’orchestra.

paolo conte_lascala_@stebrovetto

Sfilano “Aguaplano”, “Sotto le stelle del jazz”, una bellissima “Milonga”. La gente applaude, talvolta sfida la sacralità scaligera con qualche smartphone in azione (incluso qualche squillo inopportuno), tentativi di applausi a ritmo, qualche urlo di incitamento o ringraziamento.

Il meglio è quando arrivano le perle più rare: il ripescaggio dell’antica “Uomo camion”, struggente tocco di romanticismo virile, e “La frase”, gioiellino minore da un disco favoloso come “Appunti di viaggio”.

Fuori scaletta, da solo al pianoforte, ecco “Dal loggione”, quanto mai opportuna vista la sede: storia di un amore clandestino e impossibile sullo sfondo di un teatro comunale. Lei bellissima in platea col marito, lui dal loggione che la mira adorante. E poi: “Viva la musica che ti va/ Fin dentro all’anima che ti va”. Da brividi.

Il secondo tempo viaggia sul sicuro, con i classici più classici: su “Gli impermeabili” parte un’ovazione a scena aperta, così come per “Via con me” e la sempre mirabile “Max” (che però continuo a preferire nella vecchia versione con più energia e più fisarmoniche).

In “Diavolo Rosso” si scatena la band, mentre Conte seduto al piano si volta e si gode i pirotecnici virtuosismi dei suoi strumentisti. Su “Il maestro”, testo leggiadro e musica esaltante, tre coriste fanno il controcanto.

Si chiude il sipario. Il bis, come da copione, è la riproposizione di “Via con me”, col pubblico invitato con un gesto a cantare il ritornello. Nessuno se lo fa ripetere.

Si finisce così, col Piermarini a intonare “It’s wonderful, it’s wonderful…” col sorriso sulle labbra.

Alla faccia di chi voleva che questa serata non s’avesse da fare.

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