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“DEANDRÉ#DEANDRÉ – Storia di un impiegato”. Il film

Al cinema dal 25 al 27 ottobre "DEANDRÉ#DEANDRÉ - Storia di un impiegato", che racconta il racconto fra Cristiano e suo padre Fabrizio.
Foto Mondadori Portfolio-Angelo Deligio

E’ difficile convivere con cotanto padre. Da vivo e da morto. Lo ha ammesso spesso Cristiano De André, che con la storia e le opere di Faber s’è confrontato spesso. Con amore e sofferenza.

Ultima delle sue avventure, la rilettura di “Storia di un impiegato”, che ha portato dal vivo nel 2019. Un concept-album uscito nel 1973, in un’epoca di forti tensioni politiche e sociali.

Un disco complesso e cupo, dove si ritrovano istanze di vario genere: utopia, anarchia, sogno, potere, paura, rivoluzione, lotta, pacifismo e altro ancora.

Roba d’altri tempi, ma per certi versi assai attuale, che Cristiano ha riproposto in una chiave più rock, con venature elettroniche, aggiornando tematiche e contenuti alla nostra contemporaneità.

E proprio da qui parte “DEANDRÉ#DEANDRÉ – Storia di un impiegato”, il film di Roberta Lena, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia, che arriverà nelle sale il 25, 26 e 27 ottobre (qui l’elenco).

E’ lo spunto per un’indagine di un complicato rapporto padre-figlio, in cui si mescolano pubblico e privato. E tanta politica. Nel racconto a briglie sciolte di Cristiano, inframmezzato da documenti d’epoca, immagini di repertorio e spezzoni di live, riaffiorano molti elementi: la comune fede anarchica, la critica a ogni forma di potere, il legame forte con la Sardegna, i ricordi d’infanzia, gli scontri e gli allontanamenti, i momenti teneri e quelli più difficili, la passione viscerale per la musica.

Tanta, forse troppa, carne al fuoco. Così la parte “politica” risulta più farraginosa, mentre quella “privata” coinvolge ed emoziona di più. Quando arrivano le canzoni, poi, si vola in alto.

Le riletture ardite (ma efficaci) di Cristiano e le toccanti scene dei tour insieme, incluse quelle del famoso concerto di Fabrizio del 1998 al Brancaccio di Roma, uno degli ultimi prima della fine.

De André & Pfm, il concerto ritrovato

Per tre giorni al cinema, dal 17 al 19 febbraio "Fabrizio De André & PFM, il concerto ritrovato".
Fabrizio De André & PFM, il concerto ritrovato

Il mio primo incontro con Fabrizio De André fu proprio “quel” disco dal vivo con la Pfm. Perché da adolescente esterofilo, innamorato di Beatles, Elton John, Springsteen e via continuando, avevo sempre tenuto un po’ a distanza certo cantautorato italiano. Troppo pesante, impegnato, difficile. Poco rock, insomma. Poi arrivò una cassetta duplicata alla buona, e mi si aprì un altro mondo. Che bella voce, che belle parole. E che bella musica. I violini impazziti di “Zirichiltaggia”, la batteria incalzante di “Il pescatore”, lo struggente mandolino di “Andrea”. E, naturalmente, il fascino unico della poesia di Faber.

Quegli arrangiamenti (più o meno gli stessi, entrati di diritto nel “corpo” delle canzoni) me li sono ritrovati poi nel corso degli anni, seguendo per lavoro e per piacere i tanti tour di De André. Quindi non mi sono perso l’anteprima di “Fabrizio De André & Pfm – Il concerto ritrovato”, docufilm di Walter Veltroni, che sarà nei cinema per soli tre giorni, da oggi a mercoledì.

Vi si narra proprio quel tour insieme, fra il 1978 e il 1979, magico incontro fra canzone d’autore e rock: la prima parte vede i ricordi e le testimonianze di chi c’era e c’è ancora, dal presentatore David Riondino ai “ragazzi” della Pfm e a Dori Ghezzi. Si racconta la genesi dell’idea, lanciata da Di Cioccio e accettata da Faber, nonostante (anzi, proprio per questo) lo scetticismo generale.

Le prove, le critiche, le difficoltà, ma anche il clima di creatività e divertimento. In un periodo in cui suonare dal vivo poteva essere un problema: era la fine degli anni Settanta, epoca di fermenti politici e tensioni anche drammatiche. E ai concerti poteva capitare di tutto, dalle contestazioni degli autoriduttori alle cariche della polizia. Ricordo ancora la preoccupazione (giustificata) dei miei genitori ogni volta che parlavo di andare a un concerto.

Tutte cose che sembrano oggi distanti secoli fa, memorie di un mondo che non c’è più. La seconda parte del film è quella più “miracolosa”. Perché, dopo oltre 40 anni, riporta alla luce l’unico documento visivo del live in comune, ritrovato dopo una lunga e rocambolesca ricerca del cocciuto Di Cioccio. Si tratta dello spettacolo del 3 gennaio 1979 a Genova, registrato con pochi mezzi e poche luci da tal Piero Frattari e conservato nel suo archivio fino ad oggi.

Immagini di fortuna e un po’ carbonare, visto che Faber non voleva venisse ripreso alcunché, restaurate nel miglior modo possibile. E ora disponibili al mondo tutto. E’ un vero e proprio documento storico: immagini scure e imperfette (ma affascinanti), col Nostro sorridente al centro e quelli della Pfm dietro, visibili solo a tratti. Meglio ancora l’audio, che restituisce bene la magia sul palco, con De André cantare al suo meglio e la band a rivestire con preziosi arrangiamenti un pugno di classici immortali.

I titoli li sapete tutti (“Bocca di rosa”, “Il testamento di Tito”, “Amico fragile”…), dalla scaletta originale mancano solo tre pezzi, ma le immagini erano troppo rovinate. E, alla fine, si esce dal cinema col sorriso sulle labbra e tanti ritornelli nella testa. Quindi, andate al cinema, portatevi figli e nipoti, passate parola. Il modo migliore per ricordare De André che, fra l’altro, domani avrebbe compiuto 80 anni.

De André in tv, un’occasione sprecata

di Diego Perugini

_Foto Reinhold Kohl-Fondazione Fabrizio De André
Foto Reinhold Kohl-Fondazione Fabrizio De André

L’altra sera, come tanti, mi sono messo a guardare l’omaggio a Fabrizio De André su RaiUno. Primo capitolo di una trilogia che poi affronterà Dalla e Battisti. Avevo molti dubbi, l’unico filo di speranza era affidato a Enrico Ruggeri, uno dei conduttori, del quale ho stima incondizionata.

Non è andata bene. E’ stato uno spettacolo lungo, sfilacciato e farraginoso, con cantanti e presentatori spesso impacciati, scelte artistiche discutibili, arrangiamenti moderni e sopra le righe. Con momenti tragicomici come la Vanoni che s’incazza perché non riesce a leggere dal “gobbo”.

Il “gobbo”, appunto. Sinceramente mi sfugge, per esempio, come tanti professionisti non riescano a imparare una canzone a memoria, tanto più classici famosi come quelli di De André, che peraltro già dovrebbero avere ben assimilato nel tempo. Vedere gli sguardi verso l’alto alla ricerca della strofa da cantare non è il massimo, anzi.

Lo stesso Ruggeri, colpito da un vistoso calo di voce, non ha retto l’arduo cimento. Le cose da salvare? La storica Pfm, Morgan (che, almeno, la materia la conosce bene), Mauro Pagani in collegamento da Genova con “Crêuza de mä” e poco altro.

Lo so, costruire uno spettacolo intelligente su De André in prima serata, su RaiUno, cercando di incrociare i gusti di un pubblico generalista, non è facile. Ma così si peggiorano le cose. E, allora, è meglio evitare.

E’ parso uno spettacolo improvvisato, messo in piedi frettolosamente, senza un vero costrutto. Spiace. E, forse, anche Dori Ghezzi dovrebbe vagliare meglio le proposte. Inevitabili, quindi, le critiche anche pesanti sui social, incluse quelle del figlio Cristiano. Becere, invece, quelle rivolte al presunto credo politico dello stesso Ruggeri.

Non oso pensare alle prossime puntate su Dalla e Battisti, ma per fortuna non mancano le alternative. Un concerto, una partita di calcio, un buon film o un buon libro.