Piccolo aneddoto di fine vacanza. Sere fa me ne stavo in una bella chiesa di montagna ad ascoltare un piccolo recital di due ottimi cantanti lirici (basso e soprano) fra arie d’opera e momenti più pop. A un certo punto il basso si fa compunto e serioso, annunciando di stare per interpretare un brano a cui tiene molto. Boh, mi domando, chissà che cosa sarà.
E attacca l’”Hallelujah” di Cohen. Fatico a trattenere il disappunto (siamo pur sempre in chiesa) e con pazienza sopporto fino alla fine. Una versione tecnicamente ineccepibile, ma retorica ed enfatica. Da dimenticare. E penso, invece, a quanto ho amato la minimale eleganza dell’originale e, poi, la meravigliosa cover di Jeff Buckley.
Ma non è colpa del basso. Lui è, come si suol dire, la punta dell’iceberg. Il fatto è che quella grande canzone me (ce?) la stanno facendo odiare. Oggi tutti si sentono in dovere di cantarla: nei talent, nelle feste di piazza, negli spettacoli tv. Ovunque. Quando si vuol creare un momento pseudo-emozionale, ecco il pezzo ad hoc. Quasi sempre eseguito maldestramente. Molti lo vogliono ai matrimoni e ai funerali, in chiesa va fortissimo, anche se il testo non è esattamente un inno religioso.
E’ quel che accade quando un brano diventa popolare, troppo popolare. Senza magari neanche sapere la sua storia e quel che dicono le parole. Di esempi ce ne sarebbero tanti nella storia del rock, a ognuno il suo.
Forse qualcuno mi accuserà di essere snob perché, in fondo, la musica è di tutti e bisogna lasciarla scorrere. Sarà. Però io resto insofferente a sentire certi pasticci. E non me ne voglia il bravo basso.