Leonard Cohen, "Hallelujah"
Leonard Cohen, “Hallelujah”

Piccolo aneddoto di fine vacanza. Sere fa me ne stavo in una bella chiesa di montagna ad ascoltare un piccolo recital di due ottimi cantanti lirici (basso e soprano) fra arie d’opera e momenti più pop. A un certo punto il basso si fa compunto e serioso, annunciando di stare per interpretare un brano a cui tiene molto. Boh, mi domando, chissà che cosa sarà.

E attacca l’”Hallelujah” di Cohen. Fatico a trattenere il disappunto (siamo pur sempre in chiesa) e con pazienza sopporto fino alla fine. Una versione tecnicamente ineccepibile, ma retorica ed enfatica. Da dimenticare. E penso, invece, a quanto ho amato la minimale eleganza dell’originale e, poi, la meravigliosa cover di Jeff Buckley.

Ma non è colpa del basso. Lui è, come si suol dire, la punta dell’iceberg. Il fatto è che quella grande canzone me (ce?) la stanno facendo odiare. Oggi tutti si sentono in dovere di cantarla: nei talent, nelle feste di piazza, negli spettacoli tv. Ovunque. Quando si vuol creare un momento pseudo-emozionale, ecco il pezzo ad hoc. Quasi sempre eseguito maldestramente. Molti lo vogliono ai matrimoni e ai funerali, in chiesa va fortissimo, anche se il testo non è esattamente un inno religioso.

E’ quel che accade quando un brano diventa popolare, troppo popolare. Senza magari neanche sapere la sua storia e quel che dicono le parole. Di esempi ce ne sarebbero tanti nella storia del rock, a ognuno il suo.

Forse qualcuno mi accuserà di essere snob perché, in fondo, la musica è di tutti e bisogna lasciarla scorrere. Sarà. Però io resto insofferente a sentire certi pasticci. E non me ne voglia il bravo basso.