Mina Fossati

Sono passati un po’ di giorni dall’evento al Conservatorio di Milano, in cui ci hanno ripetuto in tutte le salse che “Mina Fossati” è un capolavoro. I media ci si sono buttati a capofitto, esaltando di qua e di là, dopo un primo ascolto collettivo in stile “silent disco”. Quella sera c’ero anch’io. E devo confessare che l’album non mi aveva entusiasmato più di tanto.

Perciò ci sono tornato sopra con calma e attenzione fra le mura amiche di casa, col classico ascolto in cuffia senza distrazioni. Ma le perplessità sono rimaste. Intendiamoci: è un disco fatto con attenzione e cura certosina, suonato come si deve, cantato anche meglio. E scritto da una delle nostre migliori penne d’autore.

Capolavoro, allora? Non lo so, è una parola che non amo, troppe volte usata a sproposito. E qui ho qualche dubbio. Di certo è un album elegante e di qualità: vecchio stile, nel bene e nel male. Destinato a un pubblico adulto e ben disposto, ma col rischio di sembrare a tratti “nobilmente tedioso”.

Poi ci sono i gusti personali. Per esempio io non amo gli arrangiamenti di Massimiliano Pani, in equilibrio fra pop, jazz e canzone d’autore: troppo puliti, patinati, leccati. Avrei preferito qualcosa di più istintivo, emozionale, umorale, “sporco”. E ho trovato l’uso dell’elettronica, seppur parco, un po’ fuori contesto (quel “vocoder” poi…mah).

Non tutti i pezzi, inoltre, mi sono parsi così memorabili. Di Fossati, tanto per dirne una, continuo a preferire di gran lunga la scrittura di dischi come “La pianta del tè” o “Lindbergh”. Ma qui c’è Mina, mi si obietterà giustamente, coi suoi tempi e le sue esigenze da fuoriclasse della voce.

E va bene così. In scaletta ritroviamo, comunque, momenti da brivido tipo “Come volano le nuvole”, che davvero si libra alta nel cielo e arriva dentro al cuore per restarvici. Ma non tutto è di quel livello. E allora parlare di capolavoro, forse, è un po’ fuori luogo.