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Le “Canzoni da Osteria” di Francesco Guccini

E' uscito "Canzoni da Osteria", il nuovo disco di Francesco Guccini. Canti popolari di ogni dove riletti dal Maestrone. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Come tanti, addetti ai lavori e non, sono andato all’incontro con Francesco Guccini all’Università Statale di Milano, che molti anni addietro mi ha visto timido protagonista di numerosi esami di Lettere Moderne.

E ogni qual volta ci metto piede, insomma, un pizzico d’emozione e nostalgia ritorna.

Il Maestrone Guccini, sollecitato da un paio di giovani professori, ha parlato a lungo in un’aula magna gremita di giornalisti e studenti. Strappando spesso e volentieri applausi a scena aperta, neanche fosse su un palco a cantar canzoni.

Complice l’uscita di un nuovo disco di cover sui generis, “Canzoni da Osteria”, ci ha riportato indietro nel tempo, agli anni Sessanta di Bologna, raccontando di giovani studenti di nazioni diverse che si trovavano a far baldoria e musica allietando “posti tristi frequentati da vecchietti avvinazzati” (parole sue).

Una città davvero che non dormiva mai, roba da far impallidire la celebre New York.

Il Maestrone, un po’ malfermo sulle gambe e con tanti acciacchi addosso, non ha perso la sua ironia e con voce affaticata dall’età e dai mali di stagione ha rievocato i tempi suoi e di altre generazioni. La nascita della canzone d’autore e il disinteresse verso la musica di oggi. Ma anche la passione per la letteratura e la sua parallela carriera di scrittore.

Come sempre, tutto molto interessante, citazioni di improbabili classici del pop leggero del dopoguerra inclusi, una sorta di divertente gag già sentita in altre occasioni.

Ma siccome l’attualità stringe, non si può far finta di niente.

Così sulla guerra fra Gaza e dintorni il Nostro stigmatizza la divisione in due tifoserie quando di mezzo ci sono le vittime. Rilancia la (ahimè) sempiterna lezione pacifista della sua “Auschwitz” e una toccante vignetta del compianto Staino ispirata al suo “Il vecchio e il bambino”.

Una presenza così carismatica, la sua, da far quasi passare in secondo piano la realtà dell’album in promozione, che come il precedente capitolo (“Canzoni da Intorto”, un piccolo grande successo anche a livello di vendite), sarà disponibile solo su supporto fisico.

Già, ma com’è questo “Canzoni da Osteria”?

Come detto, è un disco di cover, una raccolta di canti popolari che hanno accompagnato la vita di Guccini, fra ricordi di amici, amori, notti di musica, vino e chitarre. Tutte cose che Francesco racconta nel dettaglio nel bel libretto interno del cd.

C’è di tutto e di più. Canzoni di sentimento e canzoni politiche, canzoni di lotta e canzoni di speranza.

A partire da un classico come “Bella ciao”, restituita con un ritmo dettato da un crescendo di fiati e batteria. Con la parola “invasor” sostituita da “oppressor” e una parte in “farsi” come dedica alla lotta delle donne iraniane (ma chi vuole può coglierci altri riferimenti più a portata di mano).

E, poi, via verso altri lidi, paesi, lingue e continenti: il country-folk di “Cotton Fields”, la milonga di “Jacinto Chiclana” (firmata Piazzolla-Borges), la canzone popolare ebraica “Hava nagila”, ma anche il dialetto bolognese di “Maria la guerza”, valzer su un episodio di gelosia finito in tragedia.

E molto altro ancora, con gli arrangiamenti rinnovati ma senza eccessi di Fabio Ilacqua, suoni puliti e la voce “sfatta” (parole sue) ma sempre suggestiva del Maestrone.

Un lavoro fuori dal tempo e dalle mode, popolare e culturale al tempo stesso. E può bastare così.

p.s. Dopo la presentazione milanese, Guccini incontrerà il pubblico venerdì 1 dicembre al cinema Modernissimo di Bologna, ore 18. Info su: www.feltrinelli.it/eventi.

In più, fino a domenica 26 novembre, nell’ambito della Milano Music Week, a Milano lungo via Dante sarà possibile vedere la mostra fotografica a cielo aperto “Ma ho fatto anche il cantautore – Francesco Guccini: oltre il palco”.

Annalisa e il vortice del pop

E' la popstar italiana del momento. Tutti pazzi per Annalisa, in uscita venerdì col nuovo album  “E poi siamo finiti nel vortice”.

Da giornalista (o, forse, ormai dovrei dire ex) sono sempre incuriosito da chi ha successo. Anche se, magari, non è proprio la mia “cup of tea”.

Ancora di più quando l’exploit è forte, improvviso, inatteso. Come quello capitato ad Annalisa, che nel giro di un annetto s’è trasformata da eterna promessa a sfolgorante diva pop.

I numeri le danno ragione, a partire dai quattro platini di “Bellissima”, tormentone rimasto in classifica per un anno.

Seguito da una hit estiva come “Mon Amour”, quella del malizioso ritornello “Ho visto lei che bacia lui Che bacia lei, che bacia me…”, e ora dalla ballata più o meno romantica “Ragazza Sola”.

Tutte e tre contenute nel nuovo album (l’ottavo) “E poi siamo finiti nel vortice”, in uscita venerdì.

Lei si gode il momento di gloria senza tirarsela, anzi restando coi piedi per terra, retaggio di un’educazione solida e, chissà, di quella famigerata laurea in Fisica di tanti anni fa.

Dal vivo è bella, anzi bellissima. La voce pacata, il sorriso pronto, sembra tranquilla, rilassata.

Anche se quando le stringo la mano, alla fine, la sento freddissima. Segno che, forse, la tensione c’è. Eccome.

Lei stessa, a domanda precisa, racconta di una felicità estrema mischiata a grande responsabilità, lotta quotidiana con le aspettative e voglia di non deludere.

“Un’ansia da prestazione totale”, conclude.

Ma rivendica tutto il lavoro fatto prima, quello che un tempo si chiamava gavetta. “Il successo non è arrivato per caso, ma è il frutto della fatica di tanti anni, un passo alla volta, in divenire” chiarisce.

Poi, si sa, il successo è fatto di tanti ingredienti, spesso non pronosticabili. “Bellissima”, la hit della svolta, scopriamo per esempio che era stata scritta un paio d’anni fa e tenuta nel cassetto per lanciarla nel momento più opportuno.

Ci hanno azzeccato, complimenti. Complice una strategia di look diversi da accompagnare a ogni pezzo, perché, ovvio, non è solo questione di musica.

Comunque sia, quella di Annalisa è una proposta furba e accattivante, che mescola melodie tradizionali di facile presa a ballabili suoni elettropop anni 80, con testi semplici e diretti, molto contemporanei, quasi slogan veloci e d’effetto.

Specchio riflesso di un’immagine di donna libera e audace, ironica e complicata, consapevole e moderna.

Poi le ci mette la marcia in più di una voce bella e potente, che sa gestire bene sfumature, vocalizzi e via così.

Per questo piace al pubblico giovane, ma non solo. E sappiamo tutti quanto sia importante intercettare una platea più multigenerazionale possibile.

Il futuro potrebbe continuare a essere dalla sua parte. Perché il disco ha le carte in regola per proseguire la scalata ai piani alti del pop, con altri potenziali tormentoni in canna (“Euforia”, tanto per dirne uno) da esportare pure in altri mercati.

Intanto è tutto esaurito per la sua prima volta al Forum di Assago, il 4 novembre. E per la primavera 2024 è già annunciato un tour nei palasport.

Ma prima ci potrebbe scappare un’altra puntatina a Sanremo. “Ma solo se avrò la canzone perfetta”, precisa lei.

Beh, che dire? Sarà anche musica leggera, anzi leggerissima, però…brava!

E, allora, in bocca al lupo.

Ligabue, uno di noi

Luciano Ligabue, foto di Maurizio Bresciani

Mai stato un grande appassionato di Ligabue.

Anche se devo ammettere che alcune sue canzoni, come “Una vita da mediano” e, soprattutto, “Il giorno di dolore che uno ha”, mi sono rimaste dentro.

Ogni volta che lo incontro, però, ho la sensazione di ritrovare in lui un po’ di me. A livello di idee, pensieri, opinioni.

Sarà che, più o meno, siamo della stessa generazione. E che abbiamo avuto frequentazioni simili a livello di musica, arte, cultura.

Dei “boomer”, insomma, per dirla come si usa oggi.

Mi è capitato anche per l’uscita del nuovo album, “Dedicato a noi”.

Un disco di rock e ballate, alla sua maniera. Senza troppi fronzoli e grilli per la testa. Piacerà ai fan del Liga, gli altri criticheranno a oltranza.

Nelle parole ci ritrovi una visione preoccupata del mondo intorno a noi. Ligabue dice che è il peggior inizio di decennio che gli è capitato di vedere.

Come dargli torto?

Guerra, pandemia, clima impazzito, femminicidi, violenza, disuguaglianze sociali sempre più accentuate, fragilità sociale, ignoranza da social, paura diffusa.

Roba brutta, che ti vien voglia di mollare tutto.

Luciano non ha una ricetta magica, le sue come diceva quel tale, “sono solo canzonette”, eppure prova a dare una risposta.

Che dobbiamo trovare dentro di noi, anzi in un “noi” più o meno collettivo, che va dai rapporti di coppia alla famiglia fino a una comunità più ampia.

Fatta di gente che ci crede ancora. O, quanto meno, vuol provarci.

Il senso dell’album album è, in fondo, tutto qui.

Nell’amore che si trova e si rinnova, nella gioia delle piccole cose, nel sentirsi ancora vivi, ancora insieme. Nel ritrovarsi dalla stessa parte.

Il brano che dà il titolo al disco, uno dei migliori, riassume un po’ tutto ciò, con en passant una dedica struggente a un amico che se n’è andato troppo presto.

Poi mi è piaciuto il pezzo di chiusura, “Riderai”.

Parla di quelle volte, tante, che ci è stato detto “di tutto questo un giorno riderai”. Di quel preoccuparsi spesso per nulla, l’angustiarsi per cose futili, ma che al momento ci paiono di enorme importanza.

Così mi è venuto in mente quando, da piccolo, mi lamentavo per qualche sfiga di passaggio, che so, una sbucciatura di ginocchio o un giocattolo rotto.

E papà mi ripeteva con un sorriso che sapeva di saggezza: “Dai, finiscila. Che poi da grande non ti ricordi più”.

Lì per lì mi incazzavo di brutto.

Ma con gli anni capii che aveva ragione lui. Come sempre.

Il “piano solo” di Remo Anzovino

E' uscito "Don't Forget to Play", disco di piano solo di Remo Anzovino. Un viaggio onirico fra sonorità diverse. E affascinanti. Il 20 maggio anteprima del tour a Piano City Milano.
Remo Anzovino – photocredit Paolo Grasso

Se avete voglia di ascoltare qualcosa di diverso e un disco di piano solo non vi spaventa, date una chance a Remo Anzovino.

E’ un artista di culto, ma che nel suo ambito ha raccolto allori e riscontri in tutto il mondo, soprattutto nell’ambito delle colonne sonore.

E che su Spotify, tanto per dire, ha raggiunto insospettabili numeri milionari in fatto di streaming.

Anzovino è un 47enne dai capelli arruffati e gli occhialoni neri, appassionato di musica sin dalla più tenera età. Uno che ha studiato e continua a studiare.

E non solo musica, tanto che a 24 anni si è laureato con lode in Diritto Penale all’Università di Bologna e nel corso del tempo ha patrocinato centinaia di processi.

E’ un piacere vederlo muoversi con passione e determinazione sulla tastiera del pianoforte, mentre presenta (e racconta) dal vivo alla Casa degli Artisti meneghina il suo ultimo lavoro, “Don’t Forget to Fly”.

Una sorta di concept-album sul tema del volo e dell’evoluzione spirituale a cui ognuno di noi dovrebbe aspirare.

Un viaggio onirico fra sonorità eclettiche: classica, contemporanea, tango, valzer e altro ancora.

Per immaginare, sognare e, appunto, volare.

Anzovino lo porterà in giro per l’Italia da oggi in una serie di incontri fra librerie e centri culturali (qui l’elenco).

Si comincia stasera al Circolo dei Lettori di Torino, ore 21 (prenotazione obbligatoria).

Mentre il 20 maggio, per Piano City Milano, terrà un’anteprima gratuita del tour al Giardino BIM Bicocca, ore 18.

Se siete in zona, perché perderselo?

“Per sempre” Paola & Chiara

In uscita "Per sempre", il nuovo album di Paola & Chiara. Una raccolta di successi riveduti e corretti. Con tanti ospiti. In più, il tour. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Come direbbero gli inglesi, Paola & Chiara non sono esattamente la mia “cup of tea”.

I miei gusti vagano altrove, come avrà capito chi legge anche solo sporadicamente questo piccolo blog.

Eppure le sorelle Iezzi mi sono sempre state simpatiche. Le ho anche incontrate e intervistate più volte per lavoro, sempre con piacere.
Donne consapevoli, determinate, intelligenti.

E’ stato un gradevole déjà-vu, quindi, rivederle a Sanremo con “Furore”, a rilanciare il loro stile ballerino e trascinante.

Non è stato un episodio isolato. Domani uscirà un album dal titolo emblematico, “Per sempre”, che non è tanto l’annuncio di un ritorno perpetuo, ma più uno stato mentale o sentimentale, quel rimanere dentro “per sempre”.

Ci sono i loro successi riveduti e corretti al suono dei giorni nostri, un mix fra passato presente e futuro. Con ospiti vari, Jovanotti, Max Pezzali, Cosmo, Emma, Levante, Noemi, Elodie, Gabry Ponte, l’iberica Ana Mena.

Oltre al pezzo presentato a Sanremo, c’è un solo inedito, “Mare Caos”, fra i candidati della prossima sagra del tormentone estivo.

E, poi, sta iniziando un tour, con date sparse per la penisola, a partire dal trionfo casalingo annunciato delle due date al Fabrique di questo weekend.

Vederle insieme stamattina in luogo strategico della Milano “cool”, il D&G Martini in pieno centro, è stata una piccola botta di nostalgico glamour in questi tempi cupi.

Due dive in miniatura intorno alla cinquantina che si godono il loro novello status di culto. E ricordano gli anni in cui venivano snobbate da certa stampa.

Senza rancore, anzi quasi con rimpianto.

“Perché le critiche sono state uno stimolo, ci sono servite a mostrare chi eravamo. Mentre oggi si è fin troppo accomodanti nei confronti degli artisti che funzionano. Quel genere di critica non c’è più. E ci manca”.

Che dire? Chapeau! E ben tornate.

“Solo fiori”. Ce li porta Paolo Benvegnù

E' uscito "Solo fiori" di Paolo Benvegnù. Un ep di 5 brani sul tema dell'amore. Live al concertone romano del primo maggio. Poi in tour.
Paolo Benvegnù, foto di MauroTalamonti

E’ un disco un po’ diverso dal solito. Cinque pezzi facili (ma non troppo) firmati Paolo Benvegnù, cantautore di culto già leader della rock-band Scisma nei lontani anni ‘90.

L’artista milanese, trasferitosi a Perugia per amore, in “Solo fiori” (ep che anticipa un album in uscita a fine 2023) ci racconta proprio l’importanza dei sentimenti, una delle rare ancore di salvezza in questo mondo infame.

Già il titolo inquadra la tematica: “Parte dalla constatazione di una mia pochezza. La difficoltà di avere anche solo una piccola intuizione quotidiana, senza secondi fini. Come donare un fiore, solo un fiore a chi si ama” spiega.

Il concetto si dilata quindi in queste canzoni spesso ariose e orecchiabili, pop nel senso migliore del termine.

“Italia pornografica”, per esempio, vanta una melodia coinvolgente e raffinata, che ricorda vagamente certe cose di Samuele Bersani.

Con un testo sarcastico e pungente sul nostro Belpaese, che sta sprecando il suo grande potenziale d’amore scivolando in una spirale di malcostume, cinismo e ignoranza.

“Una stupida invettiva”, sintetizza l’autore con autoironia, che sullo sfondo di suadenti sonorità ci descrive una desolante realtà.

Gli altri quattro pezzi virano su riflessioni più intimiste, con un linguaggio poetico ma non ermetico, dal sorprendente duetto con Malika Ayane su “Non esiste altro” al ritmo più acceso, in odor di new wave, di “Our Love Song”.

L’idea di fondo è quella di un amore visto come sentimento sovversivo, rivoluzionario, antistorico.

“Bisogna amarsi e amare. Buttarsi fiduciosi negli altri” suggerisce Benvegnù, auspicando una sorta di recupero dell’ingenuità e della spontaneità infantile.

Un’idea forse utopistica, ma totalmente condivisibile.

Il primo maggio lo vedremo sul palco del concertone romano, quindi il 6 maggio all’Auditorium Parco Della Musica di Roma e il 12 alla Santeria Toscana 31 di Milano (biglietti qui).

“Ti amo come un pazzo”. E Mina ritorna

E' uscito da qualche giorno "Ti amo come un pazzo", il nuovo disco di Mina. C'è il duetto con Blanco e una bella cover di Cammariere.

Forse non tutti sanno che le presentazioni dei dischi di Mina seguono da anni lo stesso copione.

Lei non c’è, ovviamente. Al suo posto troviamo il sempre garbato figlio (e produttore) Massimiliano Pani che ci ripete senza soluzione di continuità quanto mamma sia unica, geniale, talentuosa. In pratica, una fuoriclasse assoluta.

Che ascolta tutto il materiale che le arriva nel suo “buen retiro” elvetico e poi sceglie d’istinto e di esclusiva testa sua.

Che canta spesso alla “buona la prima” e che, nonostante sia assente da una vita da palchi e tv, rimane un mito per generazioni diverse. Anche le più recenti. E amen.

Da qualche giorno, poi, possiamo ascoltarla in un nuovo lavoro, “Ti amo come un pazzo”, a quattro anni di distanza dal disco con Ivano Fossati.

Una dozzina di canzoni sul tema amoroso nelle sue miriadi di sfaccettature, con richiami al feuiletton o, per dirla all’italiana, ai fotoromanzi d’antan, stile “Grand Hotel” e “Bolero”, che le nostre mamme divoravano avidamente.

Album vecchio stile, elegante e raffinato, se non fosse per il pezzo con Blanco, “Un briciolo di allegria”, una sorta di aggancio all’attualità più in voga.

Una ballata moderna, che pare stia piacendo ai più. Ma io, da buon boomer, quando sento la voce del giovane bresciano così indulgente con l’autotune, non posso che andare oltre. Non fa per me. E mi perdoni la somma Mina.

La preferisco, per esempio, in “Don Salvatò”, lettera a Dio scritta in napoletano da Enzo Avitabile.

O nella metafora circense di “Zum Pa Pa”, fra atmosfere felliniane e scampoli di esistenzialismo.

Ma, al di là di certe romanticherie, un divertissement e qualche déjà vu, mi viene da applaudirla soprattutto nella sua versione di “Tutto quello che un uomo” di Sergio Cammariere.

Grande canzone, questa sì, d’alto e altro livello, jazzata e suadente, che l’ultraottantenne tigre di Cremona canta da par sua. Tanto che ci vien da dirle: Brava! Brava! Brava!

Ma già lo sapevamo. Ce lo aveva detto Pani, no?

Le “Tredici canzoni urgenti” di Vinicio Capossela

In arrivo venerdì "Tredici canzoni urgenti", il nuovo album di Vinicio Capossela. Un lavoro importante, con molti riferimenti all'attualità. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it
Vinicio Capossela, foto di Guido Harari

Il titolo è già rivelatorio, “Tredici canzoni urgenti”.

E l’urgenza a cui si riferisce Vinicio Capossela nel suo nuovo album, in uscita venerdì, è quella di raccontare il nostro brutto mondo quotidiano e denunciarne le troppe assurdità.

Per farlo ha abbandonato per un po’ la minuziosa ricerca lessicale e l’uso accorto di metafore e citazioni colte a favore di un linguaggio più semplice e diretto. E molto efficace.

Una semplicità (relativa) che giova parecchio ai pezzi, che arrivano subito al cuore e alla mente, emozionano d’impatto e poi ti lasciano lì a riflettere.

Vinicio ci parla della cosa più brutta in assoluto, la guerra, descritta con dolente poetica in “La crociata dei bambini”, ispirata a un poema di Brecht.

Ma ci racconta anche del consumismo spinto dei nostri tempi (“All you can eat”), di violenza sulle donne (“La cattiva educazione”), della situazione delle carceri (“Minorità”), della crisi del nostro sistema (“Sul divano occidentale”).

Ci sono inoltre il ricordo del lavoro oscuro delle donne della Resistenza (“Staffette in bicicletta” con la partecipazione dell’ex Üstmamò Mara Redeghieri) e un paio di riferimenti quanto mai attuali all’opera e alla vita di Ludovico Ariosto sul tema del potere e della guerra.

Un disco pessimista, cupo, disperato? Non proprio.

Capossela non rinuncia alla speranza già nell’iniziale “Il bene rifugio”, splendida ninna nanna romantico-finanziaria, dove non si celebrano l’oro o il Bund, ma il vero bene rifugio: l’amore.

E anche le due tracce finali, “Il tempo dei regali” e “Con i tasti che ci abbiamo”, ci invitano a considerare l’importanza del dono più grande, la vita, e a fare con quello che abbiamo, senza rincorrere desideri impossibili ma intravedendo una possibilità in ogni limite.

Un album importante, insomma, che un tempo avremmo definito “impegnato”. Ma senza spocchia, senza voler farci la morale a tutti i costi.

Politico, ma nel senso migliore del termine.

Un album che anche dal punto di vista musicale è più immediato e diretto del solito, il che non vuol dire povero d’ispirazione o, peggio, tirato via. Tutt’altro.

Ci sono ballate, valzer, jazz, rock, cha cha cha e altro ancora, con un mare di ospiti e amici come Margherita Vicario, Sir Oliver Skardy, Cesare Malfatti, Taketo Gohara, Bunna e altri ancora.

Molti di loro saranno sul palco giovedì al Conservatorio di Milano per il concerto di presentazione, già “tutto esaurito”.

A cui seguiranno dal 22 un instore tour e, quindi, una serie di “concerti urgenti” fra la primavera e l’estate.

Teneteli d’occhio.

Aiuto, tornano i Måneskin!

 Abbiamo ascoltato in anteprima "Rush!" il nuovo disco dei Måneskin, in uscita venerdì. Molto rock, soliti suoni. Ma sarà un successo.

Un caro collega (nonché amico) ripete spesso che quando qualcosa/qualcuno ha un successo spropositato, non si può ignorarlo/snobbarlo. E in qualche modo bisogna parlarne, anche e soprattutto in modo critico.

Penso che abbia ragione.

Ecco perché ieri, come tanti giornalisti, ho ascoltato in anteprima il nuovo disco dei Måneskin, “Rush!”, in uscita venerdì.

Sui motivi per cui i ragazzacci romani sono saliti sul tetto del mondo non tornerò più. Ne ho scritto mesi fa, i più curiosi si accomodino qui.

Si parlerà, quindi, di musica. Le nuove canzoni confermano la solita cifra stilistica: un rock derivativo, potente e sbruffone, con chitarre in evidenza, suoni e produzione furbescamente curati, frequenti strizzatine d’occhio al pop, ritmi ballabili.

Damiano canta per lo più in inglese, confermando (se ce n’era bisogno) tanta voglia di internazionalità e trasversalità. Piacerà ai giovani, ai giovanissimi e, perché no, pure a parecchi “boomer”.

I testi mischiano parolacce e piccole trasgressioni, rivendicazioni e autobiografia, amore e romanticismo, denuncia e ironia. Semplici, diretti, efficaci.
Non originalissimi, magari, ma questo poco importa.

Diciassette pezzi in totale, tanti, forse troppi. E la sensazione di déja vù affiora più di una volta. “Bla bla bla” è un sarcastico sberleffo contro i tanti detrattori, con citazione conclusiva degli Smiths. “Mark Chapman” riflette a tinte rock sulla figura degli stalker.

“Kool Kids”, forse il momento più bizzarro, gioca nel giardino del punk, con Damiano che ostenta un accento brit e scherza sui gusti e le attitudini dei cosiddetti “ragazzi fighi”, con “invito” finale alla coprofagia (sic!).

Praticamente l’opposto di “If Not For You”, unico vero lento in scaletta, ballatona sentimentale dal sapore un po’ vintage, col cantante in veste da crooner del nuovo millennio. Che ti lascia immaginare come potrebbe essere l’eventuale dimensione solista di Damiano.

Insomma, questo è quanto.

Poi metteteci video confezionati ad hoc, boccacce, smorfie e nudità, trend modaioli e presenza scenica. E tutto quel che già sapete.

Questi sono i Maneskin, prendere o lasciare.

In molti, visti i numeri esorbitanti fra streaming e sold out ai concerti, hanno già deciso. Gli altri possono tranquillamente passare oltre.

“Meno per meno”, torna Niccolò Fabi

Niccolò Fabi, foto di Arash Radpour

E’ una mosca bianca nel pittoresco mondo del pop.
Perché Niccolò Fabi non si fa vedere troppo in giro, non cazzeggia sui social, fa pochi tour e pubblica dischi solo quando ne sente il bisogno.

Un intellettuale che parla (e scrive) in modo forbito, dilungandosi e partendo per la tangente a ogni piè sospinto. Uno un po’ snob, verrebbe da dire, se non fosse per i tocchi di ironia (e autoironia) che piazza qua e là nelle sue elucubrazioni.

“Non a caso mi chiamano il dottor Divago” spiega sorridendo.

Ma veniamo al dunque: venerdì 2 dicembre esce “Meno per meno”, un lavoro che mescola sei vecchi pezzi riletti con nuova sensibilità assieme a un poker di inediti.

Punto di partenza il concerto all’Arena di Verona con orchestra dello scorso 2 ottobre, che ha regalato grandi emozioni agli astanti e tanta voglia di continuare l’esperienza al cantautore romano.

Ed eccole qui, queste canzoni, come sempre giocate su tinte tenui e atmosfere riflessive, con la tipica vena malinconica di Fabi. Un’introspezione spesso dolente, ma dalla valenza catartica, che si spera alla fine porti al sorriso.

Gli inediti sono di livello, dall’autobiografia nascosta di “Di aratro e di arena” ai quesiti esistenziali di “Al di fuori dell’amore”, fra scelte di vita, spaesamento generale e superficialità da social.

Sino ai riferimenti post-lockdown di “L’uomo che rimane al buio”, sulla paura della libertà, e al difficile mestiere del rimettersi in gioco di “Andare oltre”.

Il tutto con un linguaggio ricercato, arrangiamenti raffinati e concetti che vanno al di là del semplice racconto. Poche canzoni ma buone, insomma.

Anche perché, ammette Fabi, “Le canzoni nascono soprattutto in gioventù, da sensazioni vissute per la prima volta. La creatività scema col passare degli anni. Ed è più difficile scrivere da anziani”.

Il che significa, per un inguaribile perfezionista come lui, “pubblicare qualcosa solo se mi gratifica completamente”.

Per un album totalmente di inediti, per capirci, ci sarà da aspettare.

“E’ faticoso. E oggi il formato stesso di album sembra non più necessario. L’ascolto è frammentario, la fruizione della musica va oltre il disco”.

Perciò inutile anticipare i tempi. Intanto dal primo dicembre incontrerà i fan nei club e nelle librerie Feltrinelli d’Italia.

E l’anno prossimo, fra aprile e maggio, si esibirà nei teatri per la prima volta con l’Orchestra Notturna Clandestina del Maestro Enrico Melozzi.

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