Gran Bretagna, Polonia, USA, 2023. Drammatico, 106′. Regia di Jonathan Glazer. Con Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, Stephanie Petrowitz
Idolatrato dalla critica e premiato con due Oscar, il film di Glazer racconta il mattatoio di Auschwitz senza mostrarlo. Al centro invece c’è la dolce vita di un gerarca nazista e della sua famigliola in una lussuosa magione accanto al campo di morte. Un’opera spiazzante e agghiacciante, un horror sui generis realizzato con stile freddo e tesi programmatica. Con più di un riferimento alla chiusura egoistica dell’uomo contemporaneo. Lavoro tosto, importante, difficile. Come recitava una vecchia réclame: per molti, ma non per tutti.
USA, 2023. Commedia,117′. Regia di Cord Jefferson. Con Jeffrey Wright, Elle Sciore, Issa Rae, Adam Brody.
Integerrimo scrittore di colore in crisi butta giù per scherzo un libro pieno di cliché sugli afroamericani. A sorpresa avrà grande successo. Strana commedia che mescola caustiche riflessioni sull’irrisolto rapporto bianchi/neri alla satira sul mondo dell’editoria. Nel mezzo anche più private e toccanti storie di famiglia e conflitti interiori. Tanta carne al fuoco, forse troppa, ma il film ha il suo perché. E intriga sino al finale un po’ confuso. Ottimi gli attori. Premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura non Originale.
Gran Bretagna, USA, 2019. Drammatico, 110′. Regia di Sam Mendes. Con George MacKay, Dean-Charles Chapman. Su RaiPlay.
Due giovani caporali inglesi, nel mezzo della grande guerra, devono consegnare un messaggio importante a un reggimento di commilitoni per evitare una strage. Dovranno attraversare insidie di ogni genere, passando per lande devastate, corpi disseminati e pericolosi cecchini. Pluripremiato film bellico con poche scene di battaglia, ma con sempre la tensione addosso di un nemico invisibile. Regia da virtuoso fuoriclasse con finto piano sequenza infinito e coinvolgimento all’ennesima potenza. Emozionante.
USA, 2021. Drammatico, 138′. Regia di Reinaldo Marcus Green. Con Will Smith, Saniyya Sidney, Demi Singleton.
E’ il film per cui Will Smith ha vinto l’Oscar, prima del famoso schiaffo. Vi interpreta il fumantino padre delle sorelle Williams, campionesse di tennis. Un uomo estroso e testardo, dai mille chiaroscuri, ben restituito dall’attore americano, strabordante protagonista di una storia di rivalsa, riscatto e determinazione all’ennesima potenza. Forse un po’ troppo lungo, sfiora le due ore e mezza, ma comunque ben fatto. E avvincente il giusto.
USA, 2020. Drammatico, 108′. Regia di Chloé Zhao. Con Frances McDormand
E’ il film del momento, che ci ricorderemo anche perché uno dei primi a uscire nei cinema finalmente riaperti. Tre Oscar per questo road movie sui generis, che racconta il viaggio vagabondo su un camper scalcagnato di una donna provata dalla vita, ma che non molla. E continua il suo errare (anche esistenziale) in un’America di lavoretti e sfruttamento, comunità solidali e ricordi del cuore, spazi aperti e meraviglie della natura (un po’ alla Mallick). Alla fine, sarà il trionfo della libertà. E di una bravissima protagonista, Frances McDormand. Chiaro, non si tratta di un film d’azione dai ritmi funambolici, ma di un’opera lenta e suggestiva, che ti resta nel cuore. E ti fa riflettere.
Ho visto l’anteprima di “Judy”, il biopic su Judy Garland con Renée Zellweger, superfavorita all’Oscar. A dire il vero, il film non m’è piaciuto granché. Un po’ noioso e convenzionale, melodrammatico e parecchio triste. Ma, del resto, la sventurata storia della grande artista certo non è all’insegna dell’ottimismo più sfrenato.
La visione, semmai, ti induce a delle riflessioni su un elemento assai comune anche alle vicende del nostro pop: la “pericolosità” del successo. Qualcosa che ti porta alle stelle, ma può anche stritolarti, allontanarti dagli affetti più cari, ridurti a uno straccio e condurti all’autodistruzione.
“Judy” racconta questa discesa agli inferi, in realtà iniziata già agli esordi di bambina prodigio privata delle piccole grandi gioie del quotidiano (anche il semplice mangiarsi un hamburger) e costretta a mille rinunce nel nome del successo. Col corollario di tante pasticche per ovviare alle mancanze.
M’è venuta in mente Amy Winehouse, ma anche tanti altri che non sono stati capaci di “gestire” lo stress da successo, le pressioni e le rinunce. Tutte cose che a noi comuni mortali paiono così lontane, assurde. E che, invece, ritroviamo sempre più spesso nell’intimo di molti artisti.
C’è chi si ferma e si prende una pausa salutare, c’è chi sfoga le sue ansie nella musica stessa, ma c’è anche chi non ce la fa e si lascia andare. Come Judy. E tanti altri che portiamo nel cuore.
Anteprima di “Green Book”, commedia on the road anni ’60 che fa sorridere e pensare. Ed è ricca di bellissima musica. Vincerà l’Oscar? Hope so!
di Diego Perugini
Ho visto l’anteprima di “Green Book” sapendo poco o nulla del film, giusto un trailer e qualche “strillo” positivo. Scoprendo solo in seguito che è fra i candidati all’Oscar. Ed è stata una piacevolissima (e istruttiva) sorpresa. Perché è una storia vera, appassionante, una commedia on the road anni ’60 che fa sorridere e pensare. Ed è ricca di bellissima musica. Si racconta la vicenda di due personaggi antitetici: Tony Lip, italoamericano furbetto e volgarotto, ma simpatico e di buon cuore; e Don Shirley, talentuoso pianista di colore, sin troppo raffinato e rispettoso delle regole. Quest’ultimo vuole andare a suonare nel profondo Sud degli States, sfidando il razzismo imperante di quelle zone, e ingaggia il nostro Tony come autista.
Durante il viaggio ne accadono di ogni, fra situazioni comiche e altre drammatiche. Ci sono il classico scontro di caratteri, origini e comportamenti, da cui ognuno impara qualcosa dall’altro, e la denuncia del razzismo, sempre attuale. In più, una serie di riflessioni e sottotesti sulla musica. Durante i viaggi in macchina Tony fa scoprire all’altezzoso Don, chiuso nella sua torre d’avorio di matrice classica, la forza di certa black-music, da Aretha Franklin a Little Richard, riportandolo a ristabilire il contatto con le sue radici.
Don
suona in case, teatri e luoghi altolocati, davanti a un pubblico
rigorosamente bianco, stregato dal suo magico tocco. Però non può
accedere ai servizi dei bianchi, né mangiare al loro tavolo. Come
una specie di giullare che deve allietare la platea, ma poi rimanere
al suo posto. Perché la musica dei neri piace molto ai bianchi, non
tanto però da vincere il loro razzismo. Per sopravvivere Don ha
dovuto anche cambiare: lui viene dalla classica, “Ma un negro non
può suonare Chopin”, dice in uno dei momenti clou del film. E,
allora, s’inventa una miscela di jazz, blues e classica, che possa
piacere un po’ a tutti. Persino all’incolto Tony.
Non
vi dico molto altro, per non rovinarvi il piacere della visione: se
non che Viggo Mortensen nei panni di Tony è strepitoso, il film è
girato coi tempi e ritmi giusti (il regista è il mitico Peter
Farrelly di “Tutti pazzi per Mary” e altri successi), e la
colonna sonora è una gioia per le orecchie.
Si esce dal cinema col sorriso sulla labbra e anche con qualcosa in più. Per esempio, non conoscevo la musica di Shirley e ora andrò a ripescarla. Come dicevano i vecchi saggi, non si finisce mai d’imparare.