La mia prima e (ahimè) ultima volta che ho incontrato Raffaella Carrà è stato circa tre anni fa. Un’affollata conferenza stampa per presentare “Ogni volta che è Natale”, il suo album di canzoni natalizie. Ricordo il palpabile affetto e la discreta riverenza dei giornalisti, ben consci di trovarsi di fronte a un’icona vera.
Oltre che del disco, Raffa parlò molto di sé, della sua vita, delle sue scelte, del suo essere libera. Ma parlò molto anche degli altri. Di violenza e femminicidi, di amori gay e gender gap. Sognava un mondo migliore, di pace e giustizia. E provava a metterci del suo.
Aveva un piccolo grande cruccio personale: in Spagna le avevano già conferito due alte onorificenze, in Italia nulla.
“Ma nessuna polemica. Se mi vorranno dare il Cavalierato del Lavoro mi farà piacere, altrimenti amen. Il premio più importante è la gente che mi vuole bene”, disse chiudendo signorilmente il discorso.
Da noi, insomma, si arriva sempre tardi.
Alla fine mi misi disciplinatamente in coda per farmi fare un autografo. Perché quando ci vuole, ci vuole.