Si parla di Musica! (e non solo)

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“Incontri” di Guido Harari, ultimi giorni della mostra. Fate presto!

Lo so, arrivo buon ultimo a parlare di “Incontri”, la mostra di Guido Harari alla Fabbrica del Vapore.

Me l’ero segnato fra gli appuntamenti da non perdere, ma poi tra una cosa e l’altra stavo rischiando di saltarla. Così mi sono precipitato sul filo di lana in un sabato pomeriggio meneghino.

Perché, ormai, siamo ai titoli di coda. Ancora una settimana e stop. E il primo aprile, giorno di chiusura (che quest’anno è pure Pasquetta) dalle 15 ci sarà proprio Guido in persona a salutare i visitatori e firmare cataloghi.

Per quei pochi che non lo sapessero, Harari è uno dei più grandi fotografi italiani (e non solo) e nella sua carriera ha ritratto decine e decine di big della scena rock internazionale.

Nomi assai famosi, che con lui si trovavano a proprio agio e rivelavano la loro essenza più vera.

Guidato da sana passione, ha girato il mondo e seguito gli artisti in tour, cogliendo i momenti più particolari della loro vita sul palco e on the road.

Oppure li ha ritratti in modo più pensato, sempre attento però a cogliere il dettaglio giusto, la posa originale, il tratto più intimo. Con l’obiettivo dichiarato di fermare l’attimo fuggente, renderlo a suo modo immortale.

La mostra ci racconta questo e tanto altro, attraverso una serie di sale ben allestite, con le foto in bella evidenza ma anche intriganti installazioni collaterali.

Dallo schermo con video live e musica a palla al documentario di Sky Arte, fino ai grandi pannelli dedicati alle eccellenze dell’arte, della cultura e della società milanese incontrate in 50 anni di carriera.

Il risultato è un suggestivo viaggio nel tempo, ancora di più se molti di quei momenti li hai vissuti anche tu. E confesso di essermi emozionato nel ricordo di concerti e incontri ai quali, per lavoro o passione, ho partecipato anch’io.

Molte delle foto esposte sono piccoli grandi oggetti di culto.

De André che dorme sfinito per terra vicino al calorifero durante il tour con la Pfm; il sorridente trio delle meraviglie Gaber, Jannacci, Fo; il tenero abbraccio fra Lou Reed e Laurie Anderson.

E, ancora, la sequenza di Peter Gabriel che si trucca (periodo “Shock the Monkey”) e il trasognato sguardo di David Bowie su uno sfondo di luci colorate.

Ci sono anche tanti scatti non legati alla musica, a ribadire l’approccio eclettico di Harari: da Francesco Totti a Nanni Moretti, da Rita Levi Montalcini a Giovanni Agnelli.

Insomma, inutile girarci tanto intorno.

E’ una mostra da vedere. Ancora per pochi giorni a Milano. Fate presto.

“The Song Remains the Same”, i Led Zeppelin di nuovo al cinema

Non ricordo bene la prima volta che ho visto “The Song Remains the Same”, il famoso film dei Led Zeppelin.

Credo verso la fine dei ‘70, da ragazzo, in un cinemino di periferia dalle scalcinate sedie in legno. Con audio approssimativo, tagli a go-go e via dicendo.

Rivederlo oggi, rimasterizzato e tirato a lucido, a così tanto tempo di distanza, fa la solita strana impressione, un misto di nostalgia e affetto.

Colpisce duro, soprattutto, ritrovare la forza di quella band stratosferica. Non che non la conoscessi o l’avessi dimenticata, ma vederli sul grande schermo e col volume a palla fa comunque un certo effetto.

Positivo, naturalmente. Anzi, direi salutare in questi tempi di musica plastificata.

Sono immagini tratte dai concerti al Madison Square Garden di New York, nel lontanissimo 1973.

Robert Plant presenza sexy coi jeans a pelle e gilerino su torso nudo. Jimmy Page con le sue chitarre e certi pantaloni neri a zampa larga con stelle e ghirigori assortiti. Dietro il baffuto Bonham a picchiare forte, col più tranquillo John Paul Jones a lato fra basso e tastiere.

Rock tosto, blues, ballate, psichedelia senza limiti e confini, coi suoni tirati e gli assoli pirotecnici, improvvisazioni e divagazioni, i brani che mutano strada facendo e sembrano non finire mai. Una botta pazzesca di energia.

“The Song Remains the Same”, di nuovo al cinema per soli tre giorni, 25, 26 e 27 marzo ( l’elenco delle sale coinvolte è su nexodigital), era e rimane un film imperfetto, dalla storia complicata e piena di ostacoli, come potete leggere qui.

Ci sono tanti classici live (con diverse dolorose esclusioni), inframezzati da scene dal backstage, momenti privati e bizzarri video onirici.

Il più divertente (e assurdo) è quello di Plant nei panni di un ardito cavaliere che deve salvare una giovane pulzella. Roba che fa un po’ sorridere.

Al contrario della musica, davvero tosta e superba, con un Page che a un certo punto prende il sopravvento e ti sorprende ancora una volta per genialità e creatività.

Le canzoni le conoscete tutti: “Rock and Roll”, “Whole Lotta Love”, “Stairway to Heaven”, la devastante “No Quarter”.

Dopo due ore abbondanti di felice bombardamento rock, si esce dal cinema confusi e felici, persino un po’ frastornati e increduli.

E’ l’effetto che fa la musica. Quella vera.

Ligabue, uno di noi

Luciano Ligabue, foto di Maurizio Bresciani

Mai stato un grande appassionato di Ligabue.

Anche se devo ammettere che alcune sue canzoni, come “Una vita da mediano” e, soprattutto, “Il giorno di dolore che uno ha”, mi sono rimaste dentro.

Ogni volta che lo incontro, però, ho la sensazione di ritrovare in lui un po’ di me. A livello di idee, pensieri, opinioni.

Sarà che, più o meno, siamo della stessa generazione. E che abbiamo avuto frequentazioni simili a livello di musica, arte, cultura.

Dei “boomer”, insomma, per dirla come si usa oggi.

Mi è capitato anche per l’uscita del nuovo album, “Dedicato a noi”.

Un disco di rock e ballate, alla sua maniera. Senza troppi fronzoli e grilli per la testa. Piacerà ai fan del Liga, gli altri criticheranno a oltranza.

Nelle parole ci ritrovi una visione preoccupata del mondo intorno a noi. Ligabue dice che è il peggior inizio di decennio che gli è capitato di vedere.

Come dargli torto?

Guerra, pandemia, clima impazzito, femminicidi, violenza, disuguaglianze sociali sempre più accentuate, fragilità sociale, ignoranza da social, paura diffusa.

Roba brutta, che ti vien voglia di mollare tutto.

Luciano non ha una ricetta magica, le sue come diceva quel tale, “sono solo canzonette”, eppure prova a dare una risposta.

Che dobbiamo trovare dentro di noi, anzi in un “noi” più o meno collettivo, che va dai rapporti di coppia alla famiglia fino a una comunità più ampia.

Fatta di gente che ci crede ancora. O, quanto meno, vuol provarci.

Il senso dell’album album è, in fondo, tutto qui.

Nell’amore che si trova e si rinnova, nella gioia delle piccole cose, nel sentirsi ancora vivi, ancora insieme. Nel ritrovarsi dalla stessa parte.

Il brano che dà il titolo al disco, uno dei migliori, riassume un po’ tutto ciò, con en passant una dedica struggente a un amico che se n’è andato troppo presto.

Poi mi è piaciuto il pezzo di chiusura, “Riderai”.

Parla di quelle volte, tante, che ci è stato detto “di tutto questo un giorno riderai”. Di quel preoccuparsi spesso per nulla, l’angustiarsi per cose futili, ma che al momento ci paiono di enorme importanza.

Così mi è venuto in mente quando, da piccolo, mi lamentavo per qualche sfiga di passaggio, che so, una sbucciatura di ginocchio o un giocattolo rotto.

E papà mi ripeteva con un sorriso che sapeva di saggezza: “Dai, finiscila. Che poi da grande non ti ricordi più”.

Lì per lì mi incazzavo di brutto.

Ma con gli anni capii che aveva ragione lui. Come sempre.

E’ tempo di I-Days!

Liam Gallagher è uno dei protagonisti degli I-Day Milano Coca-Cola, che iniziano oggi. Nel cast anche Florence + The Machine, Rosalìa, Travis Scott, Paolo Nutini, RHCP e altri.

E’ probabilmente il festival più importante dell’area milanese, quanto meno a livello di numeri e di nomi. E non a caso si parla di oltre 300mila biglietti venduti.

Cominciano oggi gli I-Days Milano Coca-Cola, con un cast abbondante e molto virato sul rock, ma non solo.

Il primo weekend ospiterà stasera all’Ippodromo Snai San Siro il concerto già “tutto esaurito” di Florence + The Machine, guidati dalla suggestiva voce di Florence Welch, preceduti da Foals e Sudan Archives.

Domani sarà il turno di un’altra stella al femminile, più giovane e contemporanea, la spagnola Rosalìa, per un evento che mescolerà musica, moda e costume. Prima di lei altre signorine: Tinashe, Yendry e Clara.

Sabato vedrà come headliner il bravo Paolo Nutini, cantautore scozzese fra rock, blues, soul e folk. In apertura i campioni dell’alternative newyorchese Interpol e i baldi perugini Fast Animals and Slow Kids.

Da venerdì 30 giugno il palco degli I-Days si sposterà all’Ippodromo Snai La Maura per una notte rap con la superstar Travis Scott, preceduto da Capo Plaza e Ava. Ed è già tutto esaurito (80mila biglietti finiti in poco tempo).

Sabato si torna al rock con due headliner di rango: l’ex Oasis Liam Gallagher e gli americani The Black Keys (in apertura Nothing but Thieves).

Domenica bella tosta con l’unica data italiana dei RHCP, preceduti da Skunk Anansie, Primal Scream e Studio Murena.

A chiudere l’edizione 2023 degli I-Days Milano Coca-Cola, sabato 15 luglio, saranno gli inglesi Arctic Monkeys, che divideranno il palco con The Hives, Willie J Healey e Omini.

Aiuto, tornano i Måneskin!

 Abbiamo ascoltato in anteprima "Rush!" il nuovo disco dei Måneskin, in uscita venerdì. Molto rock, soliti suoni. Ma sarà un successo.

Un caro collega (nonché amico) ripete spesso che quando qualcosa/qualcuno ha un successo spropositato, non si può ignorarlo/snobbarlo. E in qualche modo bisogna parlarne, anche e soprattutto in modo critico.

Penso che abbia ragione.

Ecco perché ieri, come tanti giornalisti, ho ascoltato in anteprima il nuovo disco dei Måneskin, “Rush!”, in uscita venerdì.

Sui motivi per cui i ragazzacci romani sono saliti sul tetto del mondo non tornerò più. Ne ho scritto mesi fa, i più curiosi si accomodino qui.

Si parlerà, quindi, di musica. Le nuove canzoni confermano la solita cifra stilistica: un rock derivativo, potente e sbruffone, con chitarre in evidenza, suoni e produzione furbescamente curati, frequenti strizzatine d’occhio al pop, ritmi ballabili.

Damiano canta per lo più in inglese, confermando (se ce n’era bisogno) tanta voglia di internazionalità e trasversalità. Piacerà ai giovani, ai giovanissimi e, perché no, pure a parecchi “boomer”.

I testi mischiano parolacce e piccole trasgressioni, rivendicazioni e autobiografia, amore e romanticismo, denuncia e ironia. Semplici, diretti, efficaci.
Non originalissimi, magari, ma questo poco importa.

Diciassette pezzi in totale, tanti, forse troppi. E la sensazione di déja vù affiora più di una volta. “Bla bla bla” è un sarcastico sberleffo contro i tanti detrattori, con citazione conclusiva degli Smiths. “Mark Chapman” riflette a tinte rock sulla figura degli stalker.

“Kool Kids”, forse il momento più bizzarro, gioca nel giardino del punk, con Damiano che ostenta un accento brit e scherza sui gusti e le attitudini dei cosiddetti “ragazzi fighi”, con “invito” finale alla coprofagia (sic!).

Praticamente l’opposto di “If Not For You”, unico vero lento in scaletta, ballatona sentimentale dal sapore un po’ vintage, col cantante in veste da crooner del nuovo millennio. Che ti lascia immaginare come potrebbe essere l’eventuale dimensione solista di Damiano.

Insomma, questo è quanto.

Poi metteteci video confezionati ad hoc, boccacce, smorfie e nudità, trend modaioli e presenza scenica. E tutto quel che già sapete.

Questi sono i Maneskin, prendere o lasciare.

In molti, visti i numeri esorbitanti fra streaming e sold out ai concerti, hanno già deciso. Gli altri possono tranquillamente passare oltre.

Manuel Agnelli balla da solo

Ci ha messo un bel po’ Manuel Agnelli, a firmare il suo primo disco solista. E, forse, se non ci fosse stata la pandemia con relativo lockdown oggi non saremmo qui a parlare di “Ama il prossimo tuo come te stesso”, in uscita venerdì.

Perché tutto è iniziato in quel momento di chiusura, con brani scritti e suonati in una solitaria dimensione casalinga. Un modo anche per sperimentare. E liberarsi.

Da cosa? “Dall’idea che in tanti si sono fatti di me. Quando suoni in una band è un po’ una gabbia. E molti vedevano in me il canzonettaro del gruppo, quello più melodico. Non è così. E ho voluto dimostrare che certi suoni appartengono a me. Questo non è un disco di rottura, ma di continuità. Con più libertà” spiega il rocker meneghino.

Album dal titolo forte, rappresentativo delle dieci canzoni in scaletta: “Parlano tutte d’amore, nelle sue tante sfaccettature. Ho scritto guardando la mia vita e il mondo attorno a me. Un titolo per altro attualissimo, perché esprime un qualcosa di mai realizzato”.

I suoni sono tosti, con furor di ritmo e chitarre, ma pure con un ritrovato amore per il pianoforte. Come nell’incazzosa “Proci”, che fra le righe critica certa intellighenzia dei salotti responsabile della decadenza culturale del Paese. Ma anche la rigidità estrema della scena alternativa musicale nostrana.

Nel disco ci sono “La profondità degli abissi”, accattivante brano scritto su commissione per il film “Diabolik” (e vincitore di diversi premi), e la percussiva e tribale “Signorina Mani Avanti”.

Ma c’è soprattutto una robusta e toccante ballata come il nuovo singolo “Milano con la peste”, che rimanda ai tempi più bui del Covid e delle mascherine che lasciavano intravedere solo gli occhi.

“Per un attimo è sembrato che la gente avesse compreso quali fossero le cose importanti della vita. E ha mostrato così il suo lato migliore. Poi si è tornati come prima. Ma questa rimane una canzone sulla speranza che si possa cambiare”.

“Severodonetsk” e “Guerra e pop-corn” raccontano l’attualità bellica da differenti punti di vista, fra coinvolgimento drammatico e superficiale distacco, mentre la “title-track” parla di come si cresce e come si invecchia. E della bugia del diventare migliori col tempo.

Per il futuro Agnelli sembra più puntare alla carriera solista che a un nuovo progetto con gli Afterhours. Pensa a lavori dal ritmo di uscita più snello, uno ogni due anni.

“L’importante è fare dischi con un senso e dei contenuti, in un mondo dove in troppi cercano, invece, solo il consenso e il profitto”.

Intanto da domenica condurrà un programma su Radio24, mentre a dicembre sarà in tour nei club coi Little Pieces of Marmelade (usciti da “X Factor”), giovani musicisti con tanta voglia di spaccare.

Impegnativa ciliegina sulla torta, l’anno prossimo sarà il protagonista della versione italiana di “Lazarus”, il musical di David Bowie.

Edoardo Bennato, Peter Pan del rock

Edoardo Bennato arriva agli Arcimboldi di Milano col suo “Peter Pan rock’n’roll tour”. E suona per quasi tre ore. Un piccolo miracolo di longevità da palco. E non solo. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

D’accordo, Paul McCartney e gli Stones sono inarrivabili, ma per longevità da palco anche il nostro Edoardo Bennato non scherza.

A quasi 76 anni lo vediamo tenere il palco per oltre due ore e mezza, cantare, suonare, spiegare, raccontare il suo lungo percorso artistico, finanche un po’ sottovalutato.

Perché a guardare la scaletta di questo recital agli Arcimboldi (tutto esaurito) scorri un mare di titoli importanti, con un sacco di dolorose esclusioni.

Un carnet di sostanza, insomma, che in molti (magari pure più celebrati) nemmeno si sognano. Ma tant’è.

Spettacolo diviso idealmente in tre parti: l’inizio con gli archi del Quartetto Flegreo, poi in solitaria da “one man band” alla vecchia maniera, infine con la Be Band, solido combo elettrico con chitarre in evidenza.

Bennato mescola reminiscenze classiche alla ballata dylaniana, fino a sposare i tratti più ruvidi di certo rock-blues. Acustica non perfetta, soprattutto nei momenti più corali, ma pubblico molto caldo.

Il filo conduttore, naturalmente, è questo signore col vezzo dei capelli corvini, che ama definirsi “rinnegato” o “pazzaglione”, e non ha perso il caratteristico spirito irridente e anticonformista.

Anzi, guarda al suo canzoniere e con orgoglio ne sottolinea la grande attualità. Come nei pezzi del capolavoro “Burattino senza fili”, anno di grazia 1977, che ben tratteggiano l’Italietta scombiccherata dei nostri giorni.

E così in questo “Peter Pan rock’n’roll tour”, pur zeppo di classici del passato, non mancano i riferimenti al presente: la stupidità della guerra, di ieri e di oggi; l’arroganza e l’astuzia dei potenti; la necessità di salvare il nostro pianeta.

Bennato, come sempre, invita a coltivare il dubbio e a non barricarsi nelle proprie certezze.

Ci sono l’inno femminile e femminista di “La fata” (ma anche di “Le ragazze fanno grandi sogni”); la forza del sogno della sempre bellissima “L’isola che non c’è”; il sarcasmo di “Cantautore” e “Sono solo canzonette”.

L’omaggio alle nostre eccellenze di “Italiani” (e il video con le foto di tanti famosi connazionali strappa più di un applauso a scena aperta); l’autobiografia di “A Napoli 55 è ‘a musica” e “Rinnegato”.

Giù fino ai suoni liberatori di “Il rock di Capitan Uncino” e “In prigione, in prigione” (altro testo sempreverde) per poi distendersi nel lirismo commosso di “Un giorno credi” e nel robusto reggae di “Nisida”.

Se capita dalle vostre parti (qui le date del tour), fateci un salto. E’ musica che fa divertire e pensare. E non ce n’è poi così tanta in giro.

Il nuovo disco di John Mellencamp (con la complicità del Boss)

E' uscito “Strictly A One-Eyed Jack”, il nuovo disco di John Mellencamp. Suoni fra country e rock, con ospite Bruce Springsteen in tre pezzi. Di Diego Perugini

Anche John Mellencamp è uno dei miei artisti preferiti. Lo seguo da tempo immemore, da quando ancora si faceva chiamare Cougar, agli inizi di carriera.

L’ho conosciuto, come tanti, grazie a un singolo irresistibile come “Jack & Diane”, ballata rock dal tempo spezzettato e con un giro di chitarra inconfondibile, racconto di una storia d’amore fra giovani di belle speranze.

Era contenuta in “American Fool”, disco del lontano 1982, che partiva col rock tirato di “Hurt So Good” e si chiudeva col lento riflessivo di “Weakest Moments”, con la suggestiva voce roca in evidenza.

Mi piacque molto, qualche anno dopo, anche “Scarecrow”, non fosse altro che per quel gioiello di “Small Town”, manifesto autobiografico a colpi di rock. E, poi, la copertina iconica: credo di essermi comprato un giubbino di jeans (che poi ho indossato pochissimo) solo per somigliarli un po’.

Tra i capolavori pure “The Lonesome Jubilee”, anno di grazia 1987, con una serie di pezzi bomba come “Paper In Fire”, “Cherry Bomb” e “Check It Out”.

Poco dopo il nostro avrebbe dismesso per sempre il nomignolo Cougar per essere solo (si fa per dire) John Mellencamp e andare avanti per la sua strada con altre opere di valore. Per un certo periodo di tempo, l’ho addirittura preferito a Springsteen, il suo contraltare su larga scala.

Non l’ho mai incontrato né intervistato. E, forse, meglio così perché dicono che abbia un caratterino non proprio conciliante. L’ho visto in concerto una volta sola: il 9 luglio 2011 a Vigevano. E fu una mezza delusione.

Prima del concerto venne proiettato un lungo documentario, che poteva anche essere interessante, ma non in quel contesto, con la gente in piedi dal pomeriggio in trepida attesa. Così lo spettacolo iniziò tardi e finì presto. Bello ma troppo breve, freddino e un po’ tirato via, senza bis. Peccato.


Ciò non toglie che quel che fa Mellencamp mi interessa sempre, ieri come oggi. Eccomi, perciò, a raccontarvi del suo nuovo album, “Strictly A One-Eyed Jack”, uscito da qualche giorno.

La prima cosa che colpisce è la voce. Ancor più roca del solito, tanto da ricordare il vecchio Tom Waits (ma anche Dylan, a dirla tutta). Il suono è sobrio, molto americano e molto virato sull’acustico, col violino spesso in evidenza.

Ci sono le sfumature blues di “I Am a Man That Worries”, una ballata pianistica un po’ jazzata come “Gone So Soon” (con solo di tromba), il vivace country-rock di “Lie to Me”. E ci sono, soprattutto, i pezzi in duetto con Bruce Springsteen, incontro che chiude il cerchio e riunisce due vecchi eroi del rock a stelle-e-strisce.

Il più immediato è “Did You Say Such A Thing”, pimpante (e polemico) rock chitarristico che rimanda a vecchie hit di Mellencamp, con le due voci ben assortite a scagliarsi contro la moda sempreverde del pettegolezzo.

“Wasted Days” è più lenta e folkeggiante, molto melodica, mentre “A Life Full of Rain”, ballatona esistenziale venata di pessimismo cosmico, chiude il disco su atmosfere più meditabonde.

Un testo, quest’ultimo, che riassume l’umore non proprio solare del Mellencamp attuale. Che nei brani con parole dure e sguardo cupo riflette sul tempo che passa, i sogni infranti, le falsità del nostro tempo, la mortalità e la solitudine di tutti noi.

Non proprio un allegrone, insomma. Eppure il disco scorre via, si lascia ascoltare con piacere e spesso colpisce al cuore, per sincerità e buone intenzioni.

Se vi piace il genere, accomodatevi.

Altrimenti fra qualche giorno inizia Sanremo.

“L’ultimo girone” dei Litfiba

Ultimo valzer per i Litfiba. Anzi, "Ultimo girone", titolo del tour d'addio della band di Piero e Ghigo, dal prossimo aprile in tour. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it
Litfiba, foto di Riccardo Piccirillo

Stavolta nemmeno Elio e le Storie Tese riusciranno a far loro cambiare idea. Perché i Litfiba hanno deciso di chiudere per davvero, dopo 40anni e passa di rock. Lo faranno con un tour in grande stile dal titolo emblematico, “L’ultimo girone”, che girerà i club della penisola dal prossimo aprile (qui le date).

Piero e Ghigo lo annunciano con la serenità di chi da questa avventura ha avuto tanto. Si dichiarano “felici, appagati, senza rimpianti”. E chiudono perché “ogni cosa ha una fine” e non vogliono restare “attaccati alle poltrone come i politici”. I tempi son cambiati, insomma, e il loro l’hanno fatto.

Così davanti ai giornalisti divagano e si dilungano lasciandosi andare ai ricordi: gli inizi in una cantina, i tour sui furgoni scalcagnati, la gavetta dura, le difficoltà, i concerti in giro per il mondo, il successo, le denunce, le critiche, i litigi, le riconciliazioni. E tanto divertimento.

Rivendicano con orgoglio l’attualità di tanti temi e soggetti affrontati in tempi non sospetti, dalla difesa della diversità alla critica socio-politica. E la curiosità che ci hanno messo nella musica, tanto da non aver mai fatto “un disco uguale all’altro”.

La scaletta del loro “ultimo valzer” sarà ottima e abbondante, con una settantina di brani da cui scegliere. E ogni sera diversa per almeno un terzo dei pezzi. In più tanti ospiti, a partire dai vecchi compagni di band Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi.

Poi ognuno per la sua strada, che magari potrà incrociarsi ancora. Mai più Litfiba, però. “Ma la nostra musica rimarrà sempre”, spiegano. E, forse, va bene così.

“Siamo qui”, parola di Vasco

E' uscito "Siamo qui", il nuovo album di Vasco Rossi. Un disco rock, nel suo stile, alla vecchia maniera. E l'anno prossimo l'atteso tour.  Il commento di Diego Perugini

Se n’è già scritto in lungo e in largo già molto prima dell’uscita. Ma ora “Siamo qui” è finalmente disponibile anche per i comuni mortali. Parliamo del nuovo di Vasco Rossi, naturalmente, il diciottesimo della sua carriera.

Com’è? Beh, è un disco di Vasco. E tanto basta. Nel senso che si prende e si porta via a scatola chiusa, tanto comunque vada sarà un successo. Lo confermano i vari sold out del tour negli stadi di primavera-estate 2022, sempre che la pandemia non faccia brutti scherzi.

E’ un disco nel solco della tradizione, senza particolari novità, virato sul déjà vu autoreferenziale. Il che non per forza deve essere un male.

Vasco la butta spesso sul rock arrembante (“XI Comandamento”, “Tu ce l’hai con me”, “L’Amore L’Amore”), per poi distendersi nelle classiche ballatone (“Ho ritrovato te”, “Un respiro in più”, la “title-track”) o in qualche piacevole deriva pop (“La pioggia alla domenica”).

Tutto molto “suonato”, senza ricorrere agli artifizi elettronici tanto in voga. Alla vecchia maniera, per capirci. Con qualche arrangiamento sfizioso qua e là, fra chitarrone schierate, echi di tango, tocchi di piano, fiati e archi in libertà e, persino, un che di psichedelico (il sapore quasi mistico di “Prendiamo il volo”).

I testi mescolano pubblico e privato: c’è lo sguardo sul mondo egoista, volgare, arrogante e cattivo che tutti viviamo, raccontato fra rabbia, ironia e disincanto. E c’è il lato più intimo, le storie d’amore sempre un po’ complicate, da prendere così come vengono.

Vasco si rivolge spesso a “tu” e “noi” generici, e asciuga ancor di più le sue già minimali liriche. Spiega poco, procede per flash e lascia all’ascoltatore l’interpretazione. Laconico nei testi, ma assai disponibile nelle interviste a fornire la sua chiave di lettura. Anzi, su Amazon Music, c’è persino una versione Enhanced, col suo commento vocale canzone per canzone.

Insomma, è l’album di un (quasi) settantenne che ha ancora una voglia matta di suonare e dire la sua. Vitale, energico, catartico. Com’è sempre stato e sempre sarà pure il suo live.

Quanto ai paragoni col passato e le gloriose hit di un tempo, ci sembra tutto un po’ inutile. O, per usare un aggettivo oggi tanto di moda, stucchevole.

Il Vasco di oggi è questo qua. E, alla fine, non è poi così male.

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