Sembra facile, ma non lo è. Cantare una cover richiede studio e impegno, pena fare figuracce. Zucchero lo sa bene e nella sua carriera si è buttato più volte nell’arduo cimento. Ma a spizzichi e bocconi, con raziocinio, inanellando ogni tanto e qua e là qualche remake a sua immagine e somiglianza.
Stavolta, però, va oltre. E si concede un intero disco di cover, “Discover”, in uscita il 19 novembre. Un titolo birichino, che si presta a vari giochi di parole e interpretazioni, per raccontare di una raccolta di eclettici brani, riletti alla sua maniera. E seguendo poche ma buone regole.
Per esempio, conoscere bene la canzone che si vuole reinterpretare, in tutte le sue sfumature. E farla propria, darne una versione personale, senza esagerare con gli stravolgimenti per non rovinare tutto. Una questione di equilibri. E di buon gusto.
Poi è sempre saggio stare distanti dai superclassici, i pezzi intoccabili, resi immortali da interpretazioni storiche, in cui è facile rompersi (metaforicamente) le ossa. Zucchero, vecchia volpe, lo sa. E ha volutamente lasciato da parte titoli che ama alla follia, come “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum, perché impossibile far meglio.
E per il suo “Discover” ha scelto per lo più pezzi noti, ma non notissimi. Un mix fra gli amori esterofili e le radici nostrane. Ecco, allora, chicche nascoste di Michael Stipe, Bono e Roger Waters, un po’ di Coldplay, Chris Isaak e Moby, l’Italia di Elisa, Bocelli e Concato, un gioiellino pop dei Genesis e un reperto cult anni Sessanta che fu dei Jefferson Airplane (e non solo).
Momento più rischioso, “Ho visto Nina volare” di De André, con la voce di Faber che ritorna verso la fine. Non un duetto virtuale, però, ma un cameo. Alla fine riuscito.
Ne esce un lavoro di fino, dai colori autunnali, virato su tinte tenui e morbide malinconie, senza goliardate e impennate di ritmo. Sugar dice di aver scelto fra 500 brani e non aver ceduto a collaborazioni con rapper, trapper e nomi di tendenza, unica eccezione Mahmood.
Però confessa di avere un piccolo rimpianto: non avere potuto suonare “Honky Tonk Women” degli Stones coi Måneskin, che dice di apprezzare moltissimo. “Ma loro erano in giro e non avevano tempo”, si rammarica.
Poco male. Anzi, forse meglio così.