di Diego Perugini

Se c’è qualcosa di positivo (musicalmente parlando) in tutto questo marasma in cui ci siamo ritrovati, è il ritorno di due nomi storici del rock, Bob Dylan e Rolling Stones. Un ritorno a piccolissime dosi, distillato in pochi singoli. Due per il cantautore americano e uno per la band inglese. Con un approccio, per altro, molto diverso.

Dylan ha scelto una via intellettuale e poetica, mescolando ricordi storici, confessioni private, memorie letterarie e citazioni assortite in due pezzi, la fluviale “Murder Most Foul” (16 minuti circa) e la più stringata “I Contain Moltitudes”. Canzoni non canzoni, se mi si passa il termine, spesso recitate sullo sfondo di uno scarno (ma suggestivo) tappeto sonoro. Nessuna concessione a ritornelli orecchiabili e facili letture, e infatti i critici si sono scatenati a interpretare i versi (non di rado oscuri) e ricondurli alla nostra attualità disgraziata. Canzoni per niente facili, comunque, che richiedono attenzione e una buona conoscenza dell’inglese (o un’altrettanto buona traduzione).

Molto più immediato lo stile di Jagger & soci, che in “Living in A Ghost Town” esplicitano il disagio della solitudine coatta nelle nostre città fantasma in un pezzo diretto ed emozionale, dal testo semplice e lineare, intriso di sapori funky, reggae e blues. Un brano molto “stoniano”, dal sound familiare e inconfondibile, corredato da un video fatto di inquietanti strade vuote. Sguardi diversi, quelli di Dylan e degli Stones, su un momento storico inatteso e sconvolgente, piccole ancore di salvezza per il nostro quotidiano da reclusi.