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Mese: Ottobre 2021 (Pagina 1 di 2)

Tutti pazzi (o quasi) per i Måneskin

Tutti pazzi per i Måneskin. La band, nel giro di poche stagioni, sta conquistando il mondo. Qual è il loro segreto? E quanto durerà? Il commento di Diego Perugini
Foto di FrancisDelacroix

Se qualcuno un anno fa mi avesse detto che i Måneskin avrebbero aperto un concerto degli Stones negli Usa, gli avrei riso in faccia. O risposto sulla falsariga del surreale dialogo di “Ritorno al futuro”: “Ronald Regan presidente d’America? E il vice chi sarebbe: Jerry Lewis?!”.

Quindi avrei rilanciato con una cosa tipo: “E allora Ultimo che fa: il supporter di Paul McCartney a Londra?!”. E via sghignazzando.

Battute a parte, è tutto vero. I quattro ragazzacci romani apriranno per Jagger e soci, il 6 novembre a Las Vegas. Fatico ancora a crederci. E’ l’ennesimo colpo di teatro di questi tempi stranissimi, in cui può accadere tutto e di tutto.

Sul web e sui social la notizia ovviamente ha fatto subito furore, provocando l’ennesimo dibattito fra apocalittici e integrati sulla giovane fortunata band. Ma perché i Måneskin hanno tanto successo? Difficile spiegarlo, forse impossibile. Comunque, ci provo.

Cominciamo col dire che i quattro hanno stile, un’immagine forte, vincente, sexy, trasgressiva ma non troppo, colorata e ironica. Sanno stare su un palco, sanno come si coinvolge la gente. Amano mischiare le carte, scambiarsi gli abiti, spogliarsi, giocare con le identità sessuali. E tutto questo oggi funziona alla grande.

Poi propongono un (pop) rock semplice e caciarone, molto orecchiabile ed elementare, figlio di tante gloriose stagioni del passato, e ne ripropongono schemi, atteggiamenti, pose, stereotipi e look con disinvoltura. Sanno di copiare. Ma lo fanno benissimo, con furbizia e spavalderia.

Così i più giovani scoprono e apprezzano, chi ha qualche anno di più sul groppone riscopre e si lascia trascinare nel vortice. Anche quando, a dirla tutta, non è niente di speciale: la loro cover di “Beggin’”, per esempio, è abbastanza modesta, eppure piace tantissimo.

In più hanno dalla loro un team professionale che sa il fatto suo su questioni di marketing, linguaggio televisivo e non solo. La velocità del web e la potenza dei social hanno amplificato il fenomeno portandolo in fretta sul tetto del mondo. Come sanno anche i sassi, un tempo per andare oltre i confini nazionali ci mettevi una vita, oggi è tutto molto più veloce. Nel bene e nel male.

E, poi, aggiungetevi il fatto che vengono dall’Italia, in un anno in cui il nostro Paese per qualche strana combinazione astrale ha rialzato la schiena, ha vinto gli Europei di calcio e sorpreso in positivo alle Olimpiadi, ed è tornato il posto “cool” di un tempo, dopo le mazzate della pandemia.

Vengono dall’Italia, però non fanno il solito pop melodico e non sono sempre in tiro, ma suonano rock e si vestono come le star del glam anni 70. Quindi, sono una novità. E incuriosiscono.


Last but not least, c’è sempre quel lato insondabile del successo, l’essere nel posto giusto al momento giusto, il mistero che ti porta dal nulla al numero uno. I Måneskin hanno bruciato in poco tempo una serie di incredibili tappe, neanche fossimo in un film.

Vittoria a Sanremo, poi all’Eurovision, il duetto con l’icona Iggy Pop, l’ospitata da Jimmy Fallon, i concerti negli Usa e, tra breve, l’opening per gli Stones, più le nomination agli Mtv EMAs 2021 e agli American Music Awards. Mentre il tour 2022 è già ampiamente sold out.

Il tutto con una lunga serie di endorsement eccellenti e un’eccitata fan base dalla crescita esponenziale, che raccoglie gente di tutte le età. In Italia ormai sono visti come quasi degli eroi, dei connazionali che tengono alto il nome del nostro Paese nel mondo, forse degli apripista per altri artisti nostrani che verranno. E, visto come vanno le cose, non è detto che per loro non arrivi qualche riconoscimento istituzionale.

Ve lo immaginate? I Måneskin Cavalieri del Lavoro premiati dal presidente Mattarella. In questo pazzo pazzo pazzo mondo potrebbe accadere anche questo.

Quanto durerà? Difficile dirlo in una società che innalza e poi dimentica i suoi idoli in un batter di ciglia. Ma loro, intanto, si godono il momento magico, il sogno diventato realtà, la favola folle dei nostri tempi.

E ai detrattori (ormai una minoranza) non resta che arrendersi all’evidenza, gettare la spugna, farsene una ragione.

O seguire il sempreverde motto del Maurizio Ferrini di arboriana memoria: “Non capisco, ma mi adeguo”.

I Care a Lot

Gran Bretagna, 2020. Drammatico, 118′. Regia di J Blakeson. Con Rosamund Pike. Su Amazon Prime Video

Un’avvincente sorpresa questa commedia grottesca-thriller che si muove fra amoralità, smania di soldi e voglia di potere. Con al centro una spregiudicata e odiosa tutrice legale, dedita a “spolpare” tanti indifesi vecchietti. Ma che succede se tocchi la persona sbagliata? Scopritelo in queste due ore ad alta tensione, un po’ viziate da un improbabile eccesso di colpi di scena nella seconda parte. Comunque, ci si arrabbia e ci si diverte. Bravissima la protagonista Rosamund Pike.

L’uomo fedele

"L'uomo fedele" di e con Louis Garrel.  Recensione su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini.

Francia, 2018. Sentimentale, 72′. Regia di Louis Garrel. Con Louis Garrel, Laetitia Casta, Lily-Rose Depp. Su RaiPlay

Strana commedia (finto) romantica alla francese, con richiami alla lezione dei vari Truffaut e Rohmer. Si parla d’amore da tanti punti di vista, ma anche di tradimento, figli, tentazioni, ossessioni, morte e altro ancora. Tanta carne al fuoco in un film breve e intrigante, con svolte a tratti spiazzanti e improbabili. Ma efficaci. Ottima la coppia (anche nella vita) Garrel-Casta.

Riecco i Kings Of Convenience. In tour contro il logorio della vita moderna.

Per vari motivi sono molto legato ai Kings Of Convenience. Ricordi di anni lontani (una ventina circa), di momenti felici, di incontri importanti, di svolte di vita. E in mezzo c’era quel disco dal titolo emblematico, “Quiet Is The New Loud” (La quiete è il nuovo rumore), che nel 2001 conquistò tanti cuori romantici sparsi per il pianeta.

All’epoca ci fu chi li paragonò a Simon & Garfunkel, chi inventò per loro addirittura un nuovo filone artistico, il “New Acoustic Movement”. Ricordo ne scrissi in lungo e in largo, anche sull’indimenticabile “Diario”, col compianto Pietro Cheli alla scrivania. Altri tempi.

I due ragazzi norvegesi, Eirik Glambek Bøe ed Erlend Øye, amici da una vita, suonavano canzoni semplici e carezzevoli, un’oasi di relax contro il logorio della vita moderna. Canzoni di chitarra, voce e poco più, dai suoni dolci, intimisti e piacevoli.

Dopo quel disco ne hanno fatti altri, anche belli, prendendosi il loro tempo e dedicandosi a progetti solisti. O, più semplicemente, a vivere la propria vita. Erlend più giramondo, elettronico ed estroso, con forti legami anche in Italia, Eirik più intellettuale e legato alle proprie radici.

Ogni tanto, però, tornavano insieme. Per un album o per dei concerti. Così è capitato anche quest’anno, in cui hanno pubblicato un nuovo lavoro, “Peace Or Love”, che sembra quasi un ritorno al futuro, a quel magico disco del 2001.

E ora sono in tour in Italia (qui i biglietti), fra i pochi in giro in questo periodo di continua incertezza. Dovevano debuttare ieri sera al teatro Metropolitan di Catania, ma a causa del maltempo la data verrà recuperata il 3 novembre. Quindi: il 29 e 30 saranno al Teatro Manzoni di Bologna, poi arriveranno agli Arcimboldi di Milano l’1 novembre per due live, alle 13 e alle 21.

Penso proprio che ci sarò.

Morrison

Morrison di Federico Zampaglione. Recensione su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini

Italia, 2021. Commedia, 98′. Regia di Federico Zampaglione. Con Lorenzo Zurzolo, Giovanni Calcagno. Su Amazon Prime Video.

Federico Zampaglione, alias Tiromancino, ben conosce il mondo che descrive in questo film. Ovvero la musica, coi suoi alti e bassi, la corsa al successo e la difficoltà di mantenerlo. Al centro troviamo la storia di un ragazzo coi suoi sogni di r’n’r, che incontra una gloria decaduta del pop. Seguono sviluppi e complicazioni. Zampaglione ci racconta tutto in una chiave un po’ da fiction tv, restando in superficie. Ambienti e musiche sono ok, il resto così così. Opera piacevole, ma poteva essere meglio.

Torna la PFM. Tra prog, sperimentazione e…pecore elettriche.

La PFM, storico gruppo rock italiano, torna con "Ho sognato pecore elettriche", concept-album sull'uomo moderno in chiave progressive.
PFM, foto di Orazio Truglio

Esce oggi “Ho sognato pecore elettriche” della PFM. Ed è già una buona notizia solo il fatto che un disco del genere sia stato pubblicato. Un disco lontano dai suoni alla moda, un disco “suonato” per davvero, un disco che racconta una storia.

Franz e Patrick, “ragazzi” ultrasettantenni, guardano alla fantascienza distopica di Philip Dick e dipingono un mondo in cui gli umani stanno somigliando sempre più ai robot. Un “concept” che vuole essere, parole loro, “un campanello d’allarme per l’uomo che sta perdendo il potere del sogno”. Dove il sogno è quello stimolo che ti spinge a fare e a migliorarsi.

Il tutto in un profluvio di suoni e influenze, pregevoli passaggi strumentali e tecnica sopraffina. In equilibrio fra passato e presente, tenendo fede alla continua voglia di cambiamento che rimane alla base del credo PFM.

I nostri due eroi, in conferenza stampa, prendono un po’ le distanze dalla definizione “progressive”, a cui la loro musica viene sempre avvicinata. Ma è difficile davvero non riconoscere in questi brani ampie tracce del glorioso passato del gruppo.

Anzi, ascoltando la versione in inglese (presente nel doppio cd assieme a quella canonica nella nostra lingua) vengono in mente spesso i Genesis del periodo “gabrieliano”. Il che, si badi bene, è un complimento.

Del resto in uno dei momenti migliori, “Il respiro del tempo” (“Kindred Souls”), ritroviamo come ospiti nientemeno che Steve Hackett, ex chitarrista dei Genesis, e Ian Anderson, il flauto magico dei Jethro Tull.

Ma, nonostante le memorie d’antan, non è un disco “vecchio”, nel senso di consunto, ripetitivo o nostalgico. Al contrario, Franz e Patrick guardano avanti e proseguono orgogliosi il loro cammino, fra classicità e sperimentazione.

Converrà tenerceli stretti.

p.s. La PFM incontrerà i fan negli Instore: oggi a GENOVA (ore 18.00 Feltrinelli Genova c/o Albergo dei Poveri), il 26 ottobre a ROMA (ore 20.00 Feltrinelli Roma, Via Appia Nuova 427), il 27 ottobre a MILANO (ore 18.30 Feltrinelli Milano, Piazza Duomo).

Genitori quasi perfetti

Genitori quasi perfetti. Recensione su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini

Italia, 2019. Commedia, 85′. Regia di Laura Chiossone. Con Anna Foglietta, Paolo Calabresi… Su RaiPlay

I “genitori quasi perfetti” del titolo sono quelli (svogliatamente) riuniti a una festa del figlio di uno di loro. Invece di familiarizzare, troveranno modo di scannarsi, più o meno metaforicamente. Commedia sulle diversità, le incomprensioni, le ipocrisie e i vizi del nostro mondo, con finalino consolatorio in chiave di musical. Le psicologie, però, sono tagliate con l’accetta e il tono vira spesso sulla parodia e il grottesco. Vedibile, ma non aspettatevi molto di più.

“DEANDRÉ#DEANDRÉ – Storia di un impiegato”. Il film

Al cinema dal 25 al 27 ottobre "DEANDRÉ#DEANDRÉ - Storia di un impiegato", che racconta il racconto fra Cristiano e suo padre Fabrizio.
Foto Mondadori Portfolio-Angelo Deligio

E’ difficile convivere con cotanto padre. Da vivo e da morto. Lo ha ammesso spesso Cristiano De André, che con la storia e le opere di Faber s’è confrontato spesso. Con amore e sofferenza.

Ultima delle sue avventure, la rilettura di “Storia di un impiegato”, che ha portato dal vivo nel 2019. Un concept-album uscito nel 1973, in un’epoca di forti tensioni politiche e sociali.

Un disco complesso e cupo, dove si ritrovano istanze di vario genere: utopia, anarchia, sogno, potere, paura, rivoluzione, lotta, pacifismo e altro ancora.

Roba d’altri tempi, ma per certi versi assai attuale, che Cristiano ha riproposto in una chiave più rock, con venature elettroniche, aggiornando tematiche e contenuti alla nostra contemporaneità.

E proprio da qui parte “DEANDRÉ#DEANDRÉ – Storia di un impiegato”, il film di Roberta Lena, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia, che arriverà nelle sale il 25, 26 e 27 ottobre (qui l’elenco).

E’ lo spunto per un’indagine di un complicato rapporto padre-figlio, in cui si mescolano pubblico e privato. E tanta politica. Nel racconto a briglie sciolte di Cristiano, inframmezzato da documenti d’epoca, immagini di repertorio e spezzoni di live, riaffiorano molti elementi: la comune fede anarchica, la critica a ogni forma di potere, il legame forte con la Sardegna, i ricordi d’infanzia, gli scontri e gli allontanamenti, i momenti teneri e quelli più difficili, la passione viscerale per la musica.

Tanta, forse troppa, carne al fuoco. Così la parte “politica” risulta più farraginosa, mentre quella “privata” coinvolge ed emoziona di più. Quando arrivano le canzoni, poi, si vola in alto.

Le riletture ardite (ma efficaci) di Cristiano e le toccanti scene dei tour insieme, incluse quelle del famoso concerto di Fabrizio del 1998 al Brancaccio di Roma, uno degli ultimi prima della fine.

Io ho ucciso! La fine della famiglia Quincy

Io ho ucciso! La fine della famiglia Quincy. Recensione su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini

Usa, 1945. Drammatico. Regia: Robert Siodmak. Con George Sanders, Geraldine Fitzgerald, Ella Raines. Su RaiPlay

Su RaiPlay trovate pure questo antico melodramma (è del ’45!) in rigoroso b/n, che racconta di amore, libertà, legami familiari possessivi, vita di provincia e voglia di svoltare. Non svelo troppo della trama, mi limito a dirvi che è intrigante, ben girato e ben interpretato. Alla vecchia maniera, insomma. Ma c’è un però: un finale sbrigativo e straniante, che ho scoperto poi imposto dalla censura del tempo. Avvertenza: ci rimarrete un po’ così.

Coldplay, i più “amati” dalla critica

E ' uscito "Music Of The Spheres", il nuovo album dei Coldplay. Chris Martin e soci vanno per la loro strada pop alla faccia di critici e giudizi negativi.

Mi diverte leggere le recensioni sui dischi dei Coldplay, da sempre per vari motivi maltrattati dalla stampa. E anche sull’ultimo “Music Of The Spheres” ne ho trovate di pepate, col critico di turno che argomenta per filo e per segno perché il disco fa schifo (o giù di lì).

Un piccolo capolavoro è il finale sentenzioso di “The Guardian”, che recita più o meno così: “Chissà: magari funzionerà, per lo meno dal punto di vista commerciale. Ma ci devono essere modi più dignitosi per rimanere in vetta”. Una sintesi al curaro, venata di sottile acrimonia (e due stellette su cinque di voto).

Che poi, a dirla tutta, Chris Martin e soci un po’ se la vanno a cercare. Perché l’album in questione, il nono della loro storia, è abbastanza indifendibile fra ambientazioni da fantascienza, elettropop radiofonico (ma anche da discoteca), melodie risapute e testi che inneggiano all’amore universale.

Per dirla in poche parole: una “paraculata”, ma confezionata e veicolata alla grande. Con ampie strizzate d’occhio al pubblico generalista, come confermano i duetti con Selena Gomez e i sudcoreani BTS.

Credo che funzionerà, come funzioneranno i live negli stadi del prossimo anno. Alla faccia dei giudizi del “The Guardian” e dei “modi più dignitosi di rimanere in vetta” di cui parla.

Tanto i critici, ormai, non li segue (quasi) più nessuno. Figurarsi i Coldplay.

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