Renato Zero compie oggi 70 anni. E si regala un trittico di nuovi dischi di inediti, “Zerosettanta”, da far uscire da qui a novembre. Buon per lui, ma non voglio parlare di questo. Zero non lo sa, ma in un certo periodo della mia vita sono stato un suo fan. Direi (quasi) un “sorcino”.
Tutto nacque da “Zerofobia”, del 1977. All’epoca ero un ginnasiale già infatuato di pop e rock anglosassone, dai Beatles ai Rolling, da Lou Reed a Springsteen. Eppure quel disco mi colpì, così come il personaggio Zero, ambiguo e ammiccante, trasgressivo.
“Mi vendo”, “Vivo”, “Morire qui”, “Manichini” fino all’apoteosi enfatica di “Il cielo”. Fu un colpo di fulmine, non riuscivo a smettere di ascoltarlo. Così andai in fretta a ritroso, recuperando gli album precedenti, “Invenzioni” e “Trapezio”, e imparando i pezzi a memoria.
Mio papà, poliziotto come quello di Renato, mi guardava con perplessità. Idem gli amici e i compagni di classe, che non capivano questa mia “debolezza”. Io, però, andavo avanti per la mia strada, nonostante ironie e sfottò.
Ricordo ancora l’emozione di un concerto al teatro Odeon di Milano a fine anni 70, sala strapiena, biglietti trovati per un soffio, in piedi nella calca. Ma felici.
L’infatuazione durò un po’, poi gradualmente scemò. Anche e sopratutto perché Zero mutò pelle. Divenne più retorico e meno caustico, più predicatore e meno provocatore. I nuovi dischi mi piacevano sempre meno, così tornai al rock e gli amici (e anche papà) tirarono un sospiro di sollievo.
Zero, poi, l’ho incontrato diverse volte per lavoro, ma non gli ho mai confessato il mio passato “sorcino”. Prima o poi lo farò. Anche perché quei dischi e quelle canzoni mi sono rimasti dentro. Ogni tanto li riascolto, li so ancora a memoria. E sono bellissimi.
Perciò, tanti auguri Renato. Cento di questi zerogiorni.