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I Beatles, ancora per una volta

Sarà che sono un vecchio fan e, ogni volta che si parla di Beatles, la mia soglia d’attenzione (ormai un po’ appannata dal tempo) s’impenna bruscamente.

Così l’altra sera alle 20.30 ero davanti alla tv per vedere l’anteprima del “corto” dedicato alla lavorazione di “Now and Then”, il nuovo singolo dei fab four.

E il giorno dopo, alle 15, ero lì in trepida attesa di sentire la famosa canzone. Che, oddio, in realtà già conoscevo come “demo” lennoniano di un bel po’ di anni fa.

La versione sistemata a dovere, fra artifici tecnologici e parti nuove di zecca, è finalmente fra noi.

Diciamolo subito: non è ‘sto gran capolavoro.

E, probabilmente, sarebbe stato ingiusto reclamarlo.

Tutto nasce da un provino del Lennon solista di fine anni Settanta, quello un po’ più morbido e romantico di “Double Fantasy”. Non il miglior Lennon, probabilmente.

Il resto della storia, lunga e complicata, l’avrete già letta e sentita più volte in questi giorni. Quindi, ve la risparmio. O, al limite, vi rimando a questo esaustivo articolo.

Dicevo che “Now and Then” non è ‘sto gran capolavoro.

Una ballata morbida e sentimentale, venata di malinconia, ben costruita e arrangiata, con tutti gli ingredienti beatlesiani al punto giusto. Ideale per scatenare in chi li ama il classico effetto nostalgia.

Chiaro che non è neanche lontanamente paragonabile ai classici della band. Ma non è questo il punto.

Mette i brividi e ci commuove già solo risentire le voci di John e Paul, la batteria di Ringo, la chitarra di George, tutti insieme (più o meno) appassionatamente, anche se solo con un’operazione che i più cattivi hanno definito “Frankenstein”.

E che, guarda caso, lancerà una nuova e ricca versione delle famose raccolte rosse e blu, potenziale ennesima strenna natalizia. Del resto oggi “per nient neanca il can mena la cua”, come ripete spesso in dialetto mia zia Mirella.

Alla fine nel mio caso, come credo in quello di tanti altri appassionati, ciò che mi fa chiudere un occhio è l’idea stessa di riavere in qualche modo ancora un po’ di Beatles in questo mondo infame.

E pazienza se la canzone, insomma, è così così.

I Beatles made in Italy

Uscito da poco per Baldini+Castoldi "I Beatles made in Italy", un libro che analizza le tante cover italiane dei fab four. Di Enzo Gentile e Italo Gnocchi.

Di trippa per gatti beatlesiani ce n’è sempre in abbondanza. Segno che l’amore per i fab four è ancora forte.

E così, mentre il cofanetto deluxe di “Revolver” è il nuovo oggetto del desiderio di tanti fan, si affaccia sul mercato anche l’ennesimo nuovo libro.

Non si tratta però della classica biografia o analisi filologica dei testi, ma di qualcosa che ci riguarda più direttamente.


Il titolo dice già molto, “I Beatles made in Italy” (Baldini+Castoldi), ovvero le cover italiane dei mitici quattro.


Enzo Gentile e Italo Gnocchi, rodati esperti del settore, hanno certosinamente stilato un censimento dei tanti tentativi indigeni di restituire la magia della band inglese.


Sfogliando il volume ci si cala subito in un altro mondo, gli anni ‘60, anche per la ricca dotazione fotografica, con abbondanza di copertine di 45 giri rari e da collezione, dai colori forti e le immagini vintage.

In totale sono 132 titoli, con relative schedine arricchite da testimonianze dei protagonisti dell’epoca. Brani interpretati da nomi storici come Fausto Leali, Patty Pravo e Mina o “complessi” come Ribelli e Nuovi Angeli.

Ma anche da misconosciute meteore sommerse dal passare del tempo, delle quali è stato difficile (se non impossibile) recuperare informazioni dettagliate.

Si scoprono quindi tante cosine. Per esempio che il primo a cantare i Beatles in italiano fu Fausto Leali, nel 1963, con “Please please me”. Mentre l’autore che più ha tradotto e adattato in italiano le canzoni dei Beatles è stato Mogol.

E che “Ob-La-Dì Ob-La-Dà” è il pezzo più reinterpretato (ma anche “Yesterday” non scherza) con ben 12 versioni.

Ricordo bene al proposito quella dei Nuovi Angeli, col micidiale incipit “Gianni fa le pizze e i toast al Superbar/Lilly  canta al night del Ragno Blu”.


E qui si pone la domanda: ma com’erano queste cover in italiano?

Basta farsi un giretto su YouTube e scoprire che erano… Beh, così così.

Di sicuro inferiori agli originali, talvolta discrete o sufficienti, più spesso delle vere e proprie ciofeche.

E gli stessi autori delle schede non fanno sconti alle versioni più imbarazzanti, con ironia e un pizzico di benevolenza.

Perché, in fondo, il punto è un altro. Ed è assai piacevole andare a ritroso nel tempo, (ri)scoprire piccoli cimeli, sorridere di certe ingenuità, fissare comunque un momento unico della nostra storia. Musicale, ma non solo.

Completano il volume ritagli di giornale e locandine sui Beatles in Italia e la prefazione di uno che quegli anni li ha vissuti per davvero: l’immarcescibile Gianni Morandi.

Sarah Jane Morris canta i Beatles. Col Solis String Quartet.

Sarah Jane Morris canta i Beatles assieme al Solis String Quartet nell'album "All You Need Is Love". Da stasera a domenica live al Blue Note.

L’idea di un disco di cover dei Beatles non è esattamente un capolavoro di originalità. Perché lo storico repertorio dei fab four è stato ripreso in lungo e in largo da chiunque (incluso il sottoscritto con la sua band di dilettanti).


Eppure c’è modo e modo di cimentarsi con quelle storiche canzoni. La strada scelta da Sarah Jane Morris e il Solis String Quartet con l’album “All You Need Is Love” (da oggi in streaming, più avanti anche su cd per Irma Records) è una via di mezzo fra rispetto della tradizione e spunti innovativi.


Da una parte c’è la voce dal timbro cavernoso, potente e molto soul, della rossa cantante inglese, dall’altro il talento classico del quartetto d’archi napoletano prestato a pop e dintorni.

Due mondi quasi in antitesi che trovano un punto d’incontro nell’imperitura magia dei classici dei quattro di Liverpool.

I brani in scaletta sono famosi: si va dal nuovo singolo “Come Together” a “Yesterday”, passando per “Helter Skelter”, “Hey Jude” e un medley dedicato a Lennon. Tutto assai piacevole.


Non manca, ovviamente, la title-track che nelle intenzioni di Sarah e soci vuole essere di buon auspicio per i tempi duri che stiamo vivendo (e speriamo porti bene).

E’ un lavoro che nasce da una traccia teatrale (lo spettacolo “Ho ucciso i Beatles”) e ha la sua sublimazione in concerto. Dove si ascolterà anche una versione di “Imagine” non contenuta nel disco e con un’aggiunta di testo dedicata alla pace e ai rifugiati di ogni latitudine.

Se vi interessa, Sarah e i Solis saranno al Blue Note di Milano da stasera a domenica.

E non finisce qui. In cantiere ci sono già un secondo capitolo pieno di altri titoli beatlesiani e altri concerti il prossimo anno.

60 anni di “Love Me Do”

60 anni fa usciva "Love Me Do",  singolo d'esordio dei Beatles. Una canzone semplice, il primo passo verso la storia del pop. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Io e “Love Me Do” abbiamo più o meno la stessa età. Forse, anzi di certo, non è la migliore canzone dei Beatles, ma è il loro primo singolo, quello che ha dato il via a una storia unica e imprescindibile.

Ovviamente non ascoltai quel pezzo (che oggi compie 60 anni) in tempo reale, ma lo scoprii qualche anno dopo da bambino precoce, almeno per quanto riguarda la passione per la musica.


Era l’epoca dei registratori portatili a bassissima fedeltà, mettevi la cassettina dentro e ascoltavi quei magici suoni alla bell’e meglio. Nel mio caso la compilation rossa e quella blu.


La prima si apriva proprio coi due minuti abbondanti di “Love Me Do”, con quel sapore blues, l’armonica in evidenza, gli accordi semplici e la melodia orecchiabile.


Mi piaceva, mi piace ancora. Erano i primi vagiti di una band che poi avrebbe rivoluzionato il mondo del pop. E, soprattutto, lasciato un’eredità di canzoni stupende, ancora oggi punto di riferimento per chiunque voglia fare musica.

Di quella buona, intendo.
Quindi, tanti auguri a “Love Me Do”.
E, di rimando, pure a noi inguaribili beatlemaniaci.

Buon compleanno, Paul!

Paul McCartney compie oggi ottant'anni. Gli auguri (molto personali) di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

A conti fatti credo che Paul McCartney, da oggi splendido ottantenne, sia il mio artista preferito. Una questione di gusti, affinità, cuore. Nella mia vita è entrato che ero ancora bambino e non ne è più uscito.

Ancora oggi mi ritrovo spesso ad ascoltare le sue canzoni. Non solo i capolavori coi Beatles, ma pure certi titoli minori da solista o con gli Wings. So che, magari, non sono granché, ma li amo lo stesso.

Coincidenze: la mia prima audiocassetta è stata “The Beatles 67-70”, quella blu, il secondo volume, con “Let It Be” e “Ob-la-dì Ob-la-da”, per capirci. E il mio primo Lp fu “Red Rose Speedway” degli Wings, anche se prima avevo già comprato il 45 giri di lancio, la dolcissima “My Love”.

Cimeli che, ovviamente, ancora oggi conservo gelosamente, seppur usurati dai tanti, troppi ascolti.

Poi ci sono gli incroci magici della vita, in cui la musica diventa qualcosa di più, ti accompagna, ti aiuta, ti consola.

Paul non lo sa, ma mi è stato vicino in uno dei miei momenti più difficili. A settembre ‘89 venni operato per una malattia rara e debilitante: stetti in ospedale per circa un mese e ne uscii malmesso, sottopeso e dolente, con un necessario periodo di riabilitazione da seguire.

Qualche giorno dopo le mie dimissioni, però, McCartney arrivava al Palatrussardi e non ne volli sapere di rinunciarvi, anche se i medici erano fortemente contrari. Non potevo guidare e né andare in metropolitana, così mi accompagnò il mio povero papà e, all’interno della sala, un volenteroso amico.

Restai seduto per tutto il tempo, cercando di evitare urti e scossoni, mentre gli altri in tribuna stampa si dimenavano come ossessi. Ricordo, per esempio, un più giovane Marco Mangiarotti ballare senza ritegno su “Can’t Buy Me Love”. Io ero lì, fermo e commosso a godermi il live, che segnava in qualche modo anche il mio ritorno alla vita.

Non me lo dimenticherò mai.

Poi ho rivisto Macca più volte in concerto, per fortuna in circostanze più normali. L’ultima, strepitosa, nel 2013, all’Arena di Verona. Altra stupenda serata che porterò sempre nel cuore.

Resta sempre il piccolo grande rammarico di non averlo mai potuto incontrare da vicino, di intervistarlo come si deve o anche solo fare due chiacchiere da fan. E strappargli l’autografo che il mio caro amico Claudio, quasi suo coetaneo, attende da sempre. Sarà dura, ma chissà. Come si usa dire: mai dire mai.

Nell’attesa, buon compleanno, Paul!

“McCartney III”, il vecchio Paul balla da solo (e ci sorprende)

Ogni tanto mi capita di scorrere recensioni e commenti social sui dischi che mi interessano. Per capire un po’ l’aria che tira e, magari, sorriderci su. L’ho fatto con “McCartney III”, il nuovo album di uno dei miei artisti preferiti. E ho letto di tutto e di più, fra entusiastiche lodi e lamenti di delusione.

Del resto c’era da aspettarselo. Perché “McCartney III” è un lavoro divisivo, diverso, coraggioso. Come ormai sanno anche i sassi, l’ex Beatle ha scritto e suonato tutto da solo, chiudendo un’ideale trilogia iniziata 50 anni fa. A dare il via al progetto sono stati i giorni duri del lockdown, in cui la musica è stata per molti un valido genere di sostegno morale.

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I miei dischi di Natale

di Diego Perugini

Ognuno ha il suo disco natalizio del cuore, le canzoni che più ama ascoltare sotto il famoso albero. Che siano gli intramontabili Beatles, il recentissimo Robbie Williams o gli inflazionati “Last Chrismas” degli Wham! e “All I Want For Christmas Is You” della giunonica Mariah Carey.

Per quanto mi riguarda, non ho dubbi. Da anni la scelta cade su “What I Really Want For Christmas” di Brian Wilson (2005), uno dei miei artisti preferiti. Classici natalizi a go-go (e un paio di originali), riletti secondo la sensibilità del genio dei Beach Boys. Echi surf, nostalgia canaglia, melodie da brivido e gli immancabili coretti. Mette allegria, scalda il cuore.

E, poi, anche un gioiellino misconosciuto, uscito nel 2010, come “Holly Happy Days” delle americane Indigo Girls, che recupera in una squisita chiave country-folk il calore rustico delle feste in famiglia di un tempo. Ottimi musicisti, mirabili impasti vocali, intimità unplugged e niente retorica: pochi classici (ma la loro “O Holy Night” è un piccolo capolavoro), qualche inedito e anche un ripescaggio dal leggendario Woody Guthrie.

Se, poi, ho voglia di mainstream ripesco “Here Is Christmas”, una compilation del 1991 targata Emi. C’è un po’ di tutto, dai Queen a McCartney, da The Band ai Jethro Tull, dai Ramones a Kate Bush, da Pat Benatar ai Roxette, da Lennon ai Band Aid. Piacevole e festaiola. E ben assemblata.

Here Is Christmas, copertina. Emi, 1991)

A proposito, Buon Natale!