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Bugo, finalmente nel “giro giusto”

di Diego Perugini

Lo scandalo all'ultimo Sanremo sta regalando a Bugo una popolarità inattesa. Che il cantautore sia finalmente entrato nel "giro giusto"?
Bugo

Me ne sono accordo andando in palestra. Per una volta non si parlava di calcio, ma di quanto accaduto a Sanremo fra Morgan e Bugo. Chiaro, Morgan lo conoscevano più o meno tutti, Bugo nessuno. E ora è diventato un cult, un tormentone. I miei colleghi di fitness lo citano spesso e volentieri, si chiamano Bugo fra di loro, come in un ironico codice. Quanto durerà? Non so. Intanto aspetto che vadano ad ascoltarsi qualche suo pezzo, chissà mai.

Di certo quanto accaduto all’Ariston gli ha portato una popolarità inattesa, sicuramente più che se le cose fossero andate lisce. Qualche complottista, addirittura, suggerisce che fosse tutto combinato. Per far casino, far parlare di sé, muovere le acque. Far rumore, parafrasando il vincitore Diodato. Sarebbe stata una mossa geniale e perversa al tempo stesso.

Intanto, comunque, si parla di Bugo. Ed è già qualcosa. Uno che ha una carriera ventennale fuori dal giro giusto (cit.) e che vuole, finalmente, entrarvi. Un artista estroso, dalla voce poco educata, indie quando quel termine aveva un senso, passato per una major e poi tornato ai vecchi lidi. Coccolato dalla stampa specializzata e amato da uno zoccolo duro di aficionados, ma praticamente sconosciuto al grande pubblico.

Io lo seguo da sempre, ma a corrente alternata: ricordo gli esordi da sgangherato profeta lo-fi, quando venne a suonare negli studi di my-tv, la web-tv per cui lavoravo vent’anni fa. Si presentò alla buona, stanco dopo la giornata in fabbrica, chitarra in spalla e tanta energia, e fece un po’ delle sue canzoni surreali e un po’ strampalate. Le mie preferite rimangono “Io mi rompo i coglioni” e “Piede nella merda”. Più avanti mi piacque “C’è crisi”, del suo periodo Universal, con tanto di gadget-spilletta che mi piaceva ostentare a mo’ di scaramanzia in tempi (era il 2008) in cui la crisi si sentiva davvero.

Più di recente, nel corso di un’intervista, mi parlò di un suo trasferimento in India per amore e di due d’anni d’autoanalisi per ritrovar se stesso. Poi me lo vedo d’improvviso nel can-can di Sanremo con tutto quel che ne è seguito. Ora ha fuori anche un nuovo album, che come titolo porta semplicemente il suo vero nome, “Christian Bugatti”. Un disco più regolare, pop, pulito, con ogni tanto qualche graffio dei suoi.

Mi fa specie vederlo dalla Venier o dalla D’Urso, mi fa strano vedere tutti i media scatenati a decantarne l’arte, gli stessi che sino a qualche tempo fa neanche erano a conoscenza della sua esistenza. Ma, come cantava Jannacci, “la televisiun la g’ha na forsa de leun”, soprattutto in zona festival e dintorni. E, allora, cominciano a fioccare le ospitate. Sabato, per esempio, lo ritroveremo in “Una storia da cantare”, il programma tv di Rai1 condotto da Enrico Ruggeri e Bianca Guaccero. Forse, Bugo sta entrando davvero “nel giro giusto”. Ma gli piacerà?

Il caso (umano?) Morgan a Sanremo 2020

di Diego Perugini

Tempo fa mia cugina, una pimpante ultrasessantenne, mi chiese un giudizio spassionato su Morgan. L’aveva visto in qualche trasmissione tv e l’aveva trovato insopportabile. Ho provato a difenderlo, spiegandole come lo ritenessi uno di talento, colto e preparato, ma rovinato da un ego spropositato e da una vita spericolata. Non riuscii a convincerla, ne sono certo. E non oso pensare cosa mi direbbe ora dopo la sceneggiata sanremese della scorsa notte.

Non so com’è andata veramente, non ero là, come tanti ho letto i report dal dietro le quinte. Non so chi ha torto e chi ha ragione, né come finirà (probabilmente a carte bollate), certo non è stato un bello spettacolo. Ancor più da due che, poco prima del festival, si dichiaravano amici fraterni. Ciò però non cambia, semmai amplifica e conferma, il mio pensiero sull’artista monzese.

Su di lui (e non da ora) leggo commenti al vetriolo, spesso superficiali. E’ vero, se li cerca tutti, con atteggiamenti al limite e sparate sopra le righe. Ma esiste anche un altro Morgan, che io preferisco ricordare. Quello di certi brani dei Bluvertigo e di un disco solista di qualità come “Canzoni dell’appartamento”, che forse sarebbe il caso di (ri)ascoltare senza pregiudizi. Poi Morgan è “responsabile” di uno dei live più struggenti a cui ho assistito, tanti anni fa.

Era il 5 giugno 2005 e il nostro tenne un concerto al Cimitero Monumentale di Milano proponendo la sua versione (assai simile all’originale) di “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” del grande Fabrizio De André. Le musiche di Faber, la poesia di Spoon River, i morti sulla collina in uno scenario d’alta suggestione. Da brividi. Ricordo un cielo scuro, molto nuvoloso. Ma il tempo tenne fino alla fine. Per poi, poco dopo l’ultima nota, scatenarsi un furioso temporale liberatorio.

In tutto ciò, mi rendo conto di non aver parlato dell’altra metà della coppia scoppiata, Bugo. Anche lui bravo, più di nicchia e meno carismatico, dalla carriera più sotterranea, poco noto al grande pubblico. Ha perso, forse, l’occasione di un salto di qualità a livello popolare. Ma con Morgan “mina vagante” il rischio era in agguato. Peccato. Parafrasando le sue canzoni del periodo “lo-fi” ha messo un “piede sulla merda”, s’è “rotto i coglioni” e ora sta “con il cuore nel culo”. A Sanremo può capitare anche questo.