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I “tormentoni autunnali” di Davide Van De Sfroos

E' uscito "Manoglia", il nuovo album di Davide Van De Sfroos. Un disco acustico ricco di "tormentoni autunnali". Da oggi l'instore tour, il 29 febbraio il live agli Arcimboldi di Milano.
DVDS, foto di Alessio Pizzicanella

E’ un disco un po’ diverso da quel che passa oggi il convento. E anche per questo (per ora) non andrà sulle piattaforme di streaming.

Una scelta controcorrente, ma del resto Davide Van De Sfroos non è di quelli che seguono l’onda, tutt’altro.

“E’ un modo per ridare dignità a supporti che si credevano morti. E, poi, il mio pubblico è fatto di gente che vuole qualcosa di fisico in mano”, spiega a proposito di “Manoglia”, il suo nuovo album.

Un lavoro intimista e riflessivo, “pieno di tormentoni autunnali”, un po’ in dialetto e un po’ no, con tante canzoni scritte in differenti momenti, lasciate in un “cassetto mentale” e ora finalmente portate alla luce.

I suoni sono per lo più acustici, fra country, folk e jazz, con divagazioni prog e un pizzico di etnica.

Tutto più sussurrato e minimale, tanto che qualcuno l’ha già definito il suo “Nebraska”.

“Una scelta necessaria. E così l’ascoltatore potrà entrare maggiormente nei testi, senza la distrazione di arrangiamenti invadenti”, aggiunge.

Già, i testi.

Davide parla di sé, dei suoi ricordi, della sua visione del mondo, dei suoi luoghi del cuore.

Come la “Manoglia” del titolo, pianta secolare nella piazza di Azzano, testimone di tanti fatti, belli e brutti.

Non indugia sulla nostalgia, anche se la società di oggi non gli piace.

Dopo la pandemia, ecco le nuove guerre. Ma anche la superficialità e la cattiveria dietro i social (vedi l’ironia finale sui tiktoker in “Forsi”, virata in chiave jazz).

“Mi rifugio così nelle valli, nei boschi e nelle osterie a parlare con gli ottantenni. E confesso che talvolta non riesco a rispondere alle domande dei miei figli. I giovani di oggi sono degli eroi, che devono tirare la carretta di un mondo danneggiato da noi adulti”, racconta.

Un ripiegamento interiore che, però, non è cieca rassegnazione. Van De Sfroos guarda comunque avanti e in questi tempi di incertezza prova a ripartire.

“Crisalide”, pianistica e poetica, parla di evoluzione e di elevazione, staccandosi dalla sofferenze quotidiane. “El Giuvanonn”, invece, scende in terra e ci ricorda l’importanza di scavare nelle nostre radici, di fermarsi per ricordare.

Per arrivare a “El Mekanik”, uno dei pezzi migliori in scaletta, denso di riferimenti a certa psichedelia anni 60. Qui ritrae la figura di chi, magari bastonato dalla vita, trasforma il suo rancore in positività e diventa di conforto per gli altri.

Uno sguardo di speranza, un’ancora di salvezza per chi, nonostante tutto, ci crede ancora. Bene così.

p.s. Da oggi parte l’instore tour. Il primo appuntamento live, invece, sarà il 29 febbraio 2024 agli Arcimboldi di Milano.

Bob Dylan in Italia!

Tra qualche giorno Bob Dylan tornerà in Italia col suo tour.

Un giro di concerti, dal 3 al 9 luglio, che dalle nostre parti ha suscitato qualche mese fa una ridda di polemiche per la scelta di vietare l’uso dei telefonini in sala.

Se interessa, ne ho scritto anch’io, qui.

Adesso, però, magari si potrebbe parlare anche di musica. E di quel che il grande Bob presenterà. Cioè una scaletta rigida, con piccole variazioni umorali sul tema, come per esempio la scelta di una “cover” invece di un’altra.

Ma quel che anche il più profano degli ascoltatori potrà notare è la mancanza di quei grandi classici che hanno segnato la storia dylaniana.

Per capirci: non ci sono “Like a Rolling Stone”, “Knockin’ on Heaven’s Door”, “Mr. Tambourine Man”, “Blowin’ in the Wind” e via così.

Ritroviamo, invece, diversi pezzi dall’ultimo (e per niente facile) album “Rough and Rowdy Days”, più una serie di brani pescati dal suo infinito canzoniere. Magari non proprio minori, ma di certo non così famosi.

Insomma, Dylan continua ad andare controcorrente.

Mentre altri confezionano spettacoli zeppi di vecchi successi per compiacere il pubblico nostalgico, lui va per la sua strada e fa quel che vuole.

Immagino potrebbe raccogliere molto più pubblico con uno spettacolo di greatest hits, magari con una scenografia ricca e accattivante, ma evidentemente non gliene può fregare di meno.

E non vi aspettate omaggi ruffiani alla città di turno. Tipo “O mia bela madunina” a Milano o “Roma nun fa’ la stupida stasera” nella Capitale.

Dylan gioca in un altro campionato.

Poi magari ci sarà chi lo criticherà per la voce sempre più roca, per gli arrangiamenti arditi o per le scelte elitarie di repertorio.

Ma il bello dell’arte, in fondo, è proprio questo.

Seguire la propria ispirazione senza compromessi, stupire l’ascoltatore e portarlo su territori meno consueti. Anche a costo di scontentare qualcuno.

Un approccio sempre più raro in questi tempi di ricerca di consensi e di “vincere facile”. Quindi, bentornato Bob.

Sempre e comunque.

“Meno per meno”, torna Niccolò Fabi

Niccolò Fabi, foto di Arash Radpour

E’ una mosca bianca nel pittoresco mondo del pop.
Perché Niccolò Fabi non si fa vedere troppo in giro, non cazzeggia sui social, fa pochi tour e pubblica dischi solo quando ne sente il bisogno.

Un intellettuale che parla (e scrive) in modo forbito, dilungandosi e partendo per la tangente a ogni piè sospinto. Uno un po’ snob, verrebbe da dire, se non fosse per i tocchi di ironia (e autoironia) che piazza qua e là nelle sue elucubrazioni.

“Non a caso mi chiamano il dottor Divago” spiega sorridendo.

Ma veniamo al dunque: venerdì 2 dicembre esce “Meno per meno”, un lavoro che mescola sei vecchi pezzi riletti con nuova sensibilità assieme a un poker di inediti.

Punto di partenza il concerto all’Arena di Verona con orchestra dello scorso 2 ottobre, che ha regalato grandi emozioni agli astanti e tanta voglia di continuare l’esperienza al cantautore romano.

Ed eccole qui, queste canzoni, come sempre giocate su tinte tenui e atmosfere riflessive, con la tipica vena malinconica di Fabi. Un’introspezione spesso dolente, ma dalla valenza catartica, che si spera alla fine porti al sorriso.

Gli inediti sono di livello, dall’autobiografia nascosta di “Di aratro e di arena” ai quesiti esistenziali di “Al di fuori dell’amore”, fra scelte di vita, spaesamento generale e superficialità da social.

Sino ai riferimenti post-lockdown di “L’uomo che rimane al buio”, sulla paura della libertà, e al difficile mestiere del rimettersi in gioco di “Andare oltre”.

Il tutto con un linguaggio ricercato, arrangiamenti raffinati e concetti che vanno al di là del semplice racconto. Poche canzoni ma buone, insomma.

Anche perché, ammette Fabi, “Le canzoni nascono soprattutto in gioventù, da sensazioni vissute per la prima volta. La creatività scema col passare degli anni. Ed è più difficile scrivere da anziani”.

Il che significa, per un inguaribile perfezionista come lui, “pubblicare qualcosa solo se mi gratifica completamente”.

Per un album totalmente di inediti, per capirci, ci sarà da aspettare.

“E’ faticoso. E oggi il formato stesso di album sembra non più necessario. L’ascolto è frammentario, la fruizione della musica va oltre il disco”.

Perciò inutile anticipare i tempi. Intanto dal primo dicembre incontrerà i fan nei club e nelle librerie Feltrinelli d’Italia.

E l’anno prossimo, fra aprile e maggio, si esibirà nei teatri per la prima volta con l’Orchestra Notturna Clandestina del Maestro Enrico Melozzi.

Lyle Lovett, dieci anni dopo

Lyle Lovett, photo credit: Michael Wilson

La musica di Lyle Lovett mi riporta indietro nel tempo. A quando, da universitario fuori corso, scrivevo sul Buscadero.

Era la seconda metà degli anni Ottanta, epoca di John Hiatt, Los Lobos, Lloyd Cole, Elvis Costello e tanti altri, che divoravo avidamente.

Nel gruppone c’era pure Lovett, col suo volto aguzzo e un po’ strano, il look sempre elegante e il ciuffo ardito, cantautore di rango che il grande pubblico conobbe per lo più perché marito della diva Julia Roberts.

Mi ha sempre incuriosito il suo stile eclettico, capace di accogliere generi diversi, che ha impreziosito dischi memorabili come “Joshua Judges Ruth”, del lontano 1992.

Lo si è visto anche in diversi film d’autore, tipo Robert Altman. Perché Lyle, come si usa dire, aveva (ha) il phisique du rôle.

Mi fa piacere ritrovarlo ora, dopo tanto tempo.

Ha da poco pubblicato un singolo, “12h of June”, che farà da apripista a un nuovo album con lo stesso titolo, in uscita il 13 maggio.

E’ il suo primo lavoro dopo 10 anni: in questo lungo intervallo Lovett si è sposato, ha avuto due figli gemelli e ha firmato per la prima volta con Verve Records.

Proprio l’esperienza di padre e marito sono al centro di questa delicata ballata country, molto classica, in cui Lovett racconta con parole semplici ma sincere la gioia per la nascita dei due piccoli.

Un quadretto intimista di grande dolcezza, in cui l’artista giura amore smisurato alla famiglia fino alla fine dei suoi giorni.

L’album, prodotto da Chuck Ainlay e lo stesso Lovett, conterrà dieci pezzi fra inediti, standard firmati Nat “King” Cole e Dave Frishberg e uno strumentale del pianista jazz Horace Silver. Attendiamo.

Un disco per l’estate (vol 5): Lucio Corsi

È uno dei più originali nuovi cantautori italiani. Lucio Corsi riprende il tour dell'album “Cosa faremo da grandi?”, un gioiellino da scoprire.
Lucio Corsi, “Cosa faremo da grandi?”

Una delle pochissime note positive del periodo di “chiusura” è quello di aver potuto approfondire o scoprire artisti nuovi, di cui avevi magari sentito parlar bene, ma per questioni di tempo e pigrizia avevi trascurato.

Tra questi mi è piaciuto particolarmente Lucio Corsi (qui una mia vecchia intervista). E’ un giovane cantautore maremmano, trasferitosi in quel di Milano, che si veste come se fossimo negli anni 70 e scrive canzoni fantasiose e bizzarre, con richiami eterogenei, da Ivan Graziani al primo Renato Zero, sino al Bowie dell’epopea glam.

Ascoltare per credere il suo ultimo album, “Cosa faremo da grandi?” pubblicato da Sugar Music, prodotto con Bianconi dei Baustelle e uscito a inizio di questo anno maledetto.

Ci sono pezzi surreali, storie strane, atmosfere fiabesche, con un gusto piacevolmente rétro e fieramente fuori dalle mode. Il pezzo che dà il titolo al disco, tanto per fare un esempio, è un gioiellino (e così pure il video, un piccolo film). Consigliatissimo.

“Lucio Dalla”, 40 anni dopo

di Diego Perugini

LUCIO DALLA - Copertina "Legacy Edition". Illustrazione Alessandro Baronciani
LUCIO DALLA – Illustrazione Alessandro Baronciani

Il 1979 fu un anno importante per la musica. Uscirono “London Calling” dei Clash, “The Wall” dei Pink Floyd, “Breakfast in America” dei Supertramp, “Reggatta de Blanc” dei Police e molti altri titoli memorabili. Insomma, c’era da dar fondo ai poveri portafogli di molti noi ragazzi del tempo. In quel marasma di uscite internazionali, trovò spazio anche uno straordinario album italiano, “Lucio Dalla”. Lo comprai anch’io, spinto da una sorta di passaparola collettivo e dalla forza di una serie di brani capaci di coniugare al meglio profondità d’autore e orecchiabilità pop.

E fu un clamoroso successo, il primo vero e grande del compianto artista bolognese. Quel disco ora viene ripubblicato in una versione rimasterizzata (“Legacy Edition”), con la miglior definizione possibile e un ricco libretto interno, dove i cantautori di oggi, da Dente a Colapesce, rendono omaggio al genio “dalliano”.

Curioso risentire i protagonisti dell’epoca, come il tecnico Maurizio Biancani, che trattò il disco originale e ora ha curato anche la nuova edizione: “L’ho fatto con religioso rispetto, perché era impossibile migliorare un disco nato all’insegna del divertimento e della spontaneità. Ho solo ridato un po’ di smalto a certi colori un po’ avvizziti, una sorta di restauro. Inutile attualizzare i suoni, perché sono già attualissimi”.

Lucio Dalla, Foto d'Archivio Sony _ Marva Marrow_m
Lucio Dalla, Foto d’Archivio Sony _ Marva Marrow_m

Lo storico produttore Alessio Colombini divaga e snocciola aneddoti, parlando di un Dalla artista geniale ma “disciplinato” e pronto ad accogliere i suggerimenti giusti: “Come quando sentii il primo abbozzo di ‘Anna e Marco’: s’intitolava ‘Sera’ e aveva un testo un po’ scarsino. Glielo dissi e lui cambiò tutto in una notte. E creò quel capolavoro di immagini cinematografiche che tutti conosciamo”.

Quelle canzoni fa impressione riascoltarle oggi in una forma ancora più bella e smagliante. L’apocalittica “L’ultima luna”, l’enigmatica “La signora”, la dedica di “Milano”, il duetto con De Gregori su “Cosa sarà” (e quel bellissimo finale di sax). E, soprattutto, la conclusiva “L’anno che verrà”, col suo splendido testo fra disillusione e speranza, diventata nel tempo un inno popolare (anche nei veglioni di Capodanno), ma che non ha perso un briciolo della sua visionaria poetica. Con quell’incalzante crescendo (“vedi caro amico cosa si deve inventare…”) che mette sempre i brividi. Ieri come oggi.

In più ci sono un tris di chicche, brani già noti ma in inedite versioni di studio: l’orecchiabile “Angeli”, agrodolce ritratto degli italiani emigrati in Svizzera (bello il nuovo video girato a Lugano con le immagini di Alessandro Baronciani), e la classica “Ma come fanno i marinai” con De Gregori. Ma, forse, il “ritrovamento” più curioso è il provino di “Stella di mare” in inglese maccheronico, con Dalla che incita e guida i musicisti e canta in maniera libera e selvaggia, fra rock e prog.

E non finisce qui. Dalla Sony garantiscono che gli archivi sono ricchi di altro materiale inedito da pubblicare strada facendo. Non ci resta che aspettare. E sperare.