E’ un disco un po’ diverso da quel che passa oggi il convento. E anche per questo (per ora) non andrà sulle piattaforme di streaming.
Una scelta controcorrente, ma del resto Davide Van De Sfroos non è di quelli che seguono l’onda, tutt’altro.
“E’ un modo per ridare dignità a supporti che si credevano morti. E, poi, il mio pubblico è fatto di gente che vuole qualcosa di fisico in mano”, spiega a proposito di “Manoglia”, il suo nuovo album.
Un lavoro intimista e riflessivo, “pieno di tormentoni autunnali”, un po’ in dialetto e un po’ no, con tante canzoni scritte in differenti momenti, lasciate in un “cassetto mentale” e ora finalmente portate alla luce.
I suoni sono per lo più acustici, fra country, folk e jazz, con divagazioni prog e un pizzico di etnica.
Tutto più sussurrato e minimale, tanto che qualcuno l’ha già definito il suo “Nebraska”.
“Una scelta necessaria. E così l’ascoltatore potrà entrare maggiormente nei testi, senza la distrazione di arrangiamenti invadenti”, aggiunge.
Già, i testi.
Davide parla di sé, dei suoi ricordi, della sua visione del mondo, dei suoi luoghi del cuore.
Come la “Manoglia” del titolo, pianta secolare nella piazza di Azzano, testimone di tanti fatti, belli e brutti.
Non indugia sulla nostalgia, anche se la società di oggi non gli piace.
Dopo la pandemia, ecco le nuove guerre. Ma anche la superficialità e la cattiveria dietro i social (vedi l’ironia finale sui tiktoker in “Forsi”, virata in chiave jazz).
“Mi rifugio così nelle valli, nei boschi e nelle osterie a parlare con gli ottantenni. E confesso che talvolta non riesco a rispondere alle domande dei miei figli. I giovani di oggi sono degli eroi, che devono tirare la carretta di un mondo danneggiato da noi adulti”, racconta.
Un ripiegamento interiore che, però, non è cieca rassegnazione. Van De Sfroos guarda comunque avanti e in questi tempi di incertezza prova a ripartire.
“Crisalide”, pianistica e poetica, parla di evoluzione e di elevazione, staccandosi dalla sofferenze quotidiane. “El Giuvanonn”, invece, scende in terra e ci ricorda l’importanza di scavare nelle nostre radici, di fermarsi per ricordare.
Per arrivare a “El Mekanik”, uno dei pezzi migliori in scaletta, denso di riferimenti a certa psichedelia anni 60. Qui ritrae la figura di chi, magari bastonato dalla vita, trasforma il suo rancore in positività e diventa di conforto per gli altri.
Uno sguardo di speranza, un’ancora di salvezza per chi, nonostante tutto, ci crede ancora. Bene così.
p.s. Da oggi parte l’instore tour. Il primo appuntamento live, invece, sarà il 29 febbraio 2024 agli Arcimboldi di Milano.