Mai stato un grande appassionato di Ligabue.
Anche se devo ammettere che alcune sue canzoni, come “Una vita da mediano” e, soprattutto, “Il giorno di dolore che uno ha”, mi sono rimaste dentro.
Ogni volta che lo incontro, però, ho la sensazione di ritrovare in lui un po’ di me. A livello di idee, pensieri, opinioni.
Sarà che, più o meno, siamo della stessa generazione. E che abbiamo avuto frequentazioni simili a livello di musica, arte, cultura.
Dei “boomer”, insomma, per dirla come si usa oggi.
Mi è capitato anche per l’uscita del nuovo album, “Dedicato a noi”.
Un disco di rock e ballate, alla sua maniera. Senza troppi fronzoli e grilli per la testa. Piacerà ai fan del Liga, gli altri criticheranno a oltranza.
Nelle parole ci ritrovi una visione preoccupata del mondo intorno a noi. Ligabue dice che è il peggior inizio di decennio che gli è capitato di vedere.
Come dargli torto?
Guerra, pandemia, clima impazzito, femminicidi, violenza, disuguaglianze sociali sempre più accentuate, fragilità sociale, ignoranza da social, paura diffusa.
Roba brutta, che ti vien voglia di mollare tutto.
Luciano non ha una ricetta magica, le sue come diceva quel tale, “sono solo canzonette”, eppure prova a dare una risposta.
Che dobbiamo trovare dentro di noi, anzi in un “noi” più o meno collettivo, che va dai rapporti di coppia alla famiglia fino a una comunità più ampia.
Fatta di gente che ci crede ancora. O, quanto meno, vuol provarci.
Il senso dell’album album è, in fondo, tutto qui.
Nell’amore che si trova e si rinnova, nella gioia delle piccole cose, nel sentirsi ancora vivi, ancora insieme. Nel ritrovarsi dalla stessa parte.
Il brano che dà il titolo al disco, uno dei migliori, riassume un po’ tutto ciò, con en passant una dedica struggente a un amico che se n’è andato troppo presto.
Poi mi è piaciuto il pezzo di chiusura, “Riderai”.
Parla di quelle volte, tante, che ci è stato detto “di tutto questo un giorno riderai”. Di quel preoccuparsi spesso per nulla, l’angustiarsi per cose futili, ma che al momento ci paiono di enorme importanza.
Così mi è venuto in mente quando, da piccolo, mi lamentavo per qualche sfiga di passaggio, che so, una sbucciatura di ginocchio o un giocattolo rotto.
E papà mi ripeteva con un sorriso che sapeva di saggezza: “Dai, finiscila. Che poi da grande non ti ricordi più”.
Lì per lì mi incazzavo di brutto.
Ma con gli anni capii che aveva ragione lui. Come sempre.