Si parla di Musica! (e non solo)

Tag: pop (Pagina 1 di 2)

Gazzelle, tutto esaurito al Forum

Foto di Francesco Prandoni

Sono tornato a vedere Gazzelle, uno dei pochi nuovi artisti pop che mi piacciono. Se volete sapere perché, trovate tutto qui.

E al Forum di Assago, una delle prime date del “Dentro x sempre” tour, ho trovato un tutto esaurito vero, col traffico incasinato, code lentissime e un sacco di gente fra parterre e gradinate.

Evidentemente questo antidivo, perennemente nascosto dagli occhiali scuri, ha colto nel segno con le sue canzoni agrodolci, cantate a squarciagola da un pubblico giovane e a forte prevalenza femminile.

Ragazze e ragazzine così scatenate da starsene in piedi per tutto il tempo e sovrastare la voce già non tonitruante del piccolo Flavio.

Uno spettacolo nello spettacolo, come si usa dire. O, scomodando parole grosse, una sorta di rito collettivo a forti tinte emozionali.

Gazzelle se la gode chiuso nel suo giubbotto firmato, senza fare tanta scena. Ogni tanto chiede applausi e il pubblico non si lascia pregare.

Dialoga di cose semplici e, a un certo punto, chiede agli spettatori se sono felici. Momento di quasi imbarazzo: cosa rispondere di questi tempi strani e brutti?

Una tipa nel pit gli dice che domani si laurea. Forse lei è felice per questo.
Lui è perplesso e, dopo un po’, la chiude con una battuta, “potrei star qui tutta la sera a dire stronzate”. E riprende la musica.

Ma sì, che poi alla fine lì dentro, almeno per un paio di orette, son tutti felici a cantare e ballare, e a fermare l’attimo fuggente coi telefonini.

Gazzelle porta a casa il trionfo annunciato col supporto di una band efficace e di qualche timido effetto speciale, come il solito grande schermo dove scorrono immagini in diretta e altre preparate ad hoc, molto carine quelle stile cartoon e pure i giochini grafici.

Sfila così il classico repertorio del Nostro, diviso fra ballate romantiche, briciole malinconiche e botte di ritmo.

Si racconta di amori allo sbando, palpiti del cuore e inquietudini esistenziali, con stile semplice e linguaggio del quotidiano. Che tutti possono capire. E in cui tutti possono identificarsi. E, infatti, strofe e ritornelli vengono puntualmente scanditi all’unisono dai fan.

Ecco l’introspezione personale di “Qualcosa che non va”, la dolcezza di “Coprimi le spalle”, il delicato medley solitario in acustico e, subito dopo, l’incalzante e liberatoria “Meglio così”.

Tutti in coro per l’auto-esortazione di “Flavio”, vincente inno da stadio (o palasport), per arrivare ai pezzi da novanta del passato: “Una canzone che non so”, “Punk”, “Tutta la vita”. Quindi la sanremese “Tutto qui” e la rabbiosa “Destri”.

Per chiudere con “Non sei tu”, tanti coriandoli dal cielo e l’inevitabile “Grazie regà!”. Mentre fuori le macchine sono già in doppia fila, il traffico torna una bolgia e si corre forte per non restare imbottigliati.

Si replica stasera al Forum. Poi tanti altri concerti sparsi per l’Italia. Tutti esauriti, naturalmente. E il live speciale del 16 maggio all’Arena di Verona.
Daje, Fla.

Foto di Francesco Prandoni

Al cinema con gli ABBA

Al cinema con gli ABBA. Dal 18 al 20 settembre verrà proiettato “ABBA: The Movie - Fan Event”. L'apice del successo della band svedese.

Della mia insana passione per gli ABBA (del resto, chi non ha qualche scheletro nell’armadio?) ho già scritto e spiegato su questo piccolo blog (vedi qui).

Perciò non ho resistito alla visione in anteprima di “ABBA: The Movie – Fan Event” che andrà nelle sale per tre giorni, dal 18 al 20 settembre (qui l’elenco delle sale).

L’idea è di richiamare al cinema gli appassionati del gruppo svedese per una serata di nostalgia canaglia e festoso karaoke con tanto di “dress code” a tema. Funzionerà? Vedremo.

Non si tratta, diciamolo subito, di una novità, ma della versione restaurata della pellicola che uscì nel lontano 1977, apice del successo della band.

La trama è esilissima: un improbabile dj radiofonico deve realizzare un’intervista esclusiva ai quattro e, quindi, li insegue in modo rocambolesco per tutto il tour australiano.

Chiaro che trattasi di pretesto per un omaggio, quasi agiografico, alla band scandinava, alla sua colorita immagine e alla sua musica leggera, anzi leggerissima.

Dove sfilano trascinanti versioni live di classici come “Waterloo”, “Mamma mia” e “The Name of the Game”.

Ma anche pezzi minori come “I’m a Marionette”, che potrebbe venire interpretata come una cupa riflessione sul lato oscuro del successo.

Rivederlo oggi mette in moto il classico effetto “macchina del tempo”, in cui si viene catapultati in un mondo che non c’è più.

Senza telefonini né internet e con vecchi registratori a bobine, dove anche recapitare una tessera stampa (a proposito, oggi c’è ancora qualcuno che la usa?) diventa un problema.

L’arrivo degli ABBA in Australia ricorda la “beatlemania” con scene di delirio dei fan.

E si indugia a lungo sul volto pulito del gruppo, uno dei motivi del loro successo multigenerazionale (piacciono a bambini, genitori e nonni), in contrasto coi brutti, sporchi e cattivi del punk del tempo.

C’è pure, en passant, qualche spigolatura contro i giornalisti, sempre dietro alle più effimere questioni di gossip o a sottolineare la bellezza (peraltro indiscutibile) del “lato b” di Agnetha.

E’ una sorta di documento d’epoca che farà sorridere chi quei momenti li ha vissuti e (forse) insinuerà qualche curiosità nelle nuove generazioni.

Poi, chiaro, gli Abba ti devono piacere almeno un po’, altrimenti la visione rischia di essere un calvario di noia.

Per la cronaca, il film viene accompagnato da alcuni contenuti extra, come un dietro le quinte del recente e ipertecnologico spettacolo “ABBA Voyage”, una visita al Museo degli Abba di Stoccolma e alcuni video sottotitolati delle canzoni più famose.

Romantico e pop, il mondo di Gazzelle

Gazzelle in concerto all'Ippodromo Snai di Milano
Gazzelle_ph. Elena Di Vincenzo

Confesso di avere un piccolo debole per Gazzelle. Qualcuno magari lo chiamerà scheletro nell’armadio, ma tant’è. Mi piacciono il suo stile sdrucito e informale, il romanticismo metropolitano, il linguaggio semplice e quotidiano, i ritornelli orecchiabili.

Anche perciò mi sono calato, ancora una volta, in un contesto non mio, circondato da un pubblico giovane e giovanissimo, con forte predominanza femminile. Ieri sera all’Ippodromo Snai San Siro per il Milano Summer Festival, gremito di gente.

Gazzelle tiene il palco per un’oretta e mezza, parte spedito con una delle sue hit più famose e divertenti, “Meglio così”. Tiene alto il ritmo, poi si distende nei brani più morbidi e sentimentali, tipo “Una canzone che non so”, “Punk”, “7” e “Tutta la vita”.

Rispetto al passato appare più sicuro, professionale, preciso.

“Qualche anno fa qui a Milano ho suonato in un locale davanti a 200 persone. E adesso guarda che roba” dice mirando alla distesa di teste davanti a lui.

Il pubblico, ovviamente, esulta. E canta di tutto e di gusto, balla e salta sui pezzi più tirati, come la dance di “Polynesia”, musica allegra per la fine di un amore, o le riflessioni esistenziali in chiave pop di “Vita paranoia”.

Capelli corti e occhiali scuri, un po’ (finto) scazzato sullo stile dell’idolo Liam Gallagher, il piccolo Flavio saluta e ringrazia spesso col classico “Ciao regà” e lo spiccato accento romano.

Parla molto di amori tormentati, con voce imbronciata e frequenti spunti autobiografici, perché “quando sto male quasi sempre ci esce una canzone”, spiega prima di attaccare “Ora che ti guardo bene”, nata durante i tristi tempi del lockdown. E, en passant, annuncia di stare lavorando a un nuovo disco. Giù applausi.

Dicono che Gazzelle piaccia così tanto perché sa bene raccontare ansie, disagio, frustrazione e senso di inadeguatezza dei ventenni/trentenni di oggi. Con un misto di rabbia, malinconia e tenerezza.

Eppure il concerto ha sempre il sapore della festa liberatoria, con le ragazze delle prime file in short e canotta a urlare senza requie e le coppiette nel “pit” che si scambiano baci e cantano le strofe vis-à-vis.

Fin quando verso la fine arrivano la botta electro della vecchia “Zucchero filato” e lo sfogo di “Destri”, ancora su una storia andata a quel paese.

Si esce dall’arena un po’ più leggeri, col sorriso sulle labbra e tanti ritornelli nella testa. Bene così. Anzi, meglio così.

Si replica il 22 a Rock in Roma e il 24 al Teatro Antico di Taormina.

Oddio, mi piace l’ultima canzone di Harry Styles!

Il tormentone del momento? E' "As It Was" di Harry Styles. Una gran bella canzone pop, che ti resta subito in testa. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Mentre è tutto un gran parlare dell’Eurovision torinese e delle sue insulse canzoncine, da qualche giorno mi capita di avere una musica in testa (cit.).

Ma mica una di quelle storiche del rock, a cui sono legato da anni di frequentazione appassionata.

No, è un pezzo a tutto pop, di quelli che vanno oggi: “As It Was” di Harry Styles.

Io, che gli One Direction proprio non me li sono mai filati, mi trovo ossessionato da uno di loro. Mi sveglio la mattina con quel riff in testa e non se ne va più via.

Anche perché lo senti un po’ ovunque, al supermercato come dal parrucchiere. E quasi mi vergogno a dire che non mi dispiace. Anzi.

In realtà già mi era capitato, anni fa, con “Sign of the Times”, sontuosa ballata di grande suggestione. Sempre cantata da quello Styles.


E ora c’è “As It Was”, un brano diverso, più movimentato e ballabile, con una strofa incalzante e un ritornello vincente, melodico e orecchiabile. Pochi accordi, ma quelli giusti.


E un testo semplice (ma non banale) che mescola ricordi, riflessioni sul successo, scampoli di autobiografia, vicende amorose e cambiamenti esistenziali.

Comunque, pare che io non sia l’unico a gradire. Il video viaggia intorno ai 120milioni di visualizzazioni.

E gli Arcade Fire hanno pensato bene di farne già una cover.


Forse perché, al di là di tutti i pregiudizi di un boomer rockettaro come me, è una gran bella canzone?

La leggerezza pop di Francesco Gabbani

E' uscito "Volevamo solo essere felici", il nuovo album di Francesco Gabbani. Un disco pop, leggero ma non stupido. Anzi. Di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it
Francesco Gabbani, foto di Chiara Mirelli

Ogni tanto capita di aver voglia di un po’ di pop. Musica leggera, anzi leggerissima. Che non per forza però deve essere cialtrona o banale.

La senti quando fai ginnastica, cucini, pulisci casa o fai un giretto per la città. Senza impegno, lasciando che tutto scorra.

Come l’ultimo album di Francesco Gabbani, “Volevamo solo essere felici”, che mi sono ritrovato ad ascoltare.

Il simpatico baffuto toscano, che quantomeno ha il pregio di non tirarsela e non menarsela, ha raccolto in questo disco il suo piccolo mondo personale, fatto di ballabili in odor di tormentone (sulla scia della hit “Occidentali’s Karma”), con qualche riminiscenza del Battiato anni Ottanta, e morbide ballate dal piglio più intimista.

Queste ultime paiono anche il momento in cui dà il meglio, come in “La mira”, un lento pianistico d’autore stile Samuele Bersani, in cui il nostro racconta l’infinita e impervia strada che porta alla conoscenza di se stessi.

Oppure “Spazio tempo”, dalla melodia familiare e orecchiabile, in cui descrive il piacere delle piccole cose inattese, che ci aiutano a sorridere.

Gabbani ha un linguaggio semplice ma efficace, fra giochi di parole e citazioni sparse (colte e meno colte), con l’ironia sempre in pole position.

E affronta con levità anche temi difficili, dalle dipendenze di ogni tipo alle illusioni del web, da un pacifismo quanto mai attuale alla ricerca della felicità, sempiterna meta di ogni uomo.

Insomma, magari non proprio il disco che porterei sulla famosa isola deserta. Ma, come dicevo, ogni tanto si ha voglia di pop. Musica leggera, anzi leggerissima.

E questa può funzionare.

Cesare Cremonini e “La ragazza del futuro”

Cesare Cremonini, foto di Andrea Sestito

Tanti anni fa, una ventina circa, il mio caposervizio all’Unità, Toni Jop, vecchio rockettaro incallito (uno di quelli pazzi per Dylan e Neil Young, per capirci) mi confessava al telefono fra il serio e il faceto: “Ma sai che quel ragazzetto, Cremonini, non mi dispiace. Mi devo preoccupare?”.

Ci risi sopra, ovviamente. E risposi che no, non c’era da preoccuparsi. Che Cremonini era uno bravo, che sapeva scrivere. E che con noi condivideva la medesima passione beatlesiana (e non solo), riversata spesso e volentieri nelle sue canzoni. Poi la storia finì lì. E non ne parlammo più.

Ascoltando il nuovo disco di Cesare, “La ragazza del futuro”, mi è tornato in mente Toni, che non sento e vedo da una vita. Chissà se quel “ragazzetto” gli piace ancora.

Nel frattempo l’imberbe star dei Lùnapop s’è fatto uomo, di grandi successi ma anche di grandi crisi esistenziali, come spesso capita nella vita. E ora pubblica un nuovo album che non nasconde alte ambizioni, come ha raccontato nella fluviale conferenza stampa di presentazione.

E’ una specie di “concept” su questi tempi strani, ma con lo sguardo dritto e aperto sul futuro, ricco di speranza nella forza dell’amore e delle nuove generazioni. Meno autoreferenziale e più aperto al mondo.

Un lavoro curato nel dettaglio, con suoni stratificati e abbondanza di citazioni, per chi sa coglierle. Raffinato ed elegante, talvolta ai confini della sperimentazione, ma senza perdere il gusto di una bella melodia o di un ritmo che fa muovere i piedi.

C’è da ascoltare, pensare, ballare, talvolta anche commuoversi in queste dieci canzoni di pop adulto. Dove gli archi si mescolano al beat elettronico e le divagazioni poetiche s’alternano alla concretezza del quotidiano.

Poi ognuno ha i suoi gusti. Io, per esempio, preferisco l’intimità di “MoonWalk”, toccante ballata che descrive il rapporto di Cesare col vecchio padre nei suoi ultimi giorni. Una storia di amore, vita, morte, dignità. E una canzone difficile da scrivere e da cantare. Tanto che mentre ne racconta la genesi, gli viene il magone.

Bella anche la chiusura di “Chiamala felicità”, con l’autobiografia che torna protagonista, la speranza e il sorriso dopo il disagio della depressione e della solitudine.

In mezzo tanti altri brani. Meritevoli. Le memorie beatlesiane di “Jeky” sul tema dell’adolescenza rubata dall’isolamento pandemico, ma anche i tanti fuori di testa che popolano il mondo dei social (e non solo) in “Psyco”.

La sensualità ossessiva e liberatoria di “Chimica” e le complesse alchimie sonore di “Stand Up Comedy”, la poetica levità di “Colibrì” e l’incalzare ballerino, in una pregevole chiave funk “dalliana”, di “La ragazza del futuro”, il brano che ha dato il “la” al progetto. Che andrà oltre il disco, con murales, tour negli stadi e altre avventure.

Già, chissà che ne pensa il vecchio Toni del “ragazzetto”.

Anzi, quasi quasi ora gli scrivo. E, poi, vi dico (forse).

Il ritorno degli Abba, fra pop e malinconia

E' uscito "Voyage", il nuovo disco degli Abba. Un ritorno fra pop e malinconia dopo 40 anni di assenza.  Il commento di Diego Perugini

Mi sembra (quasi) ieri che, undicenne, m’agitavo sul divano di casa sulle note di “Waterloo”. Mi piacevano da morire quel rockettino melodico e quei quattro ragazzi vestiti strani che una sera d’aprile del 1974 fecero irruzione sulla mia tivù in bianco e nero.

Era la serata finale dell’Eurofestival (all’epoca lo chiamavamo così) e gli Abba vinsero alla grande. Io tifavo per loro senza smanie nazionaliste, visto che l’Italia partecipava con “Sì” di Gigliola Cinquetti (peraltro censurata per motivi politici, sic), davvero troppo old fashion per i miei gusti. Fu amore a prima vista, insomma.

Poi gli Abba continuai a seguirli un po’ di soppiatto, anche perché crescendo conobbi il vero rock e non faceva figo dire che li ascoltavi e ti piacevano. Ma pezzi come “S.O.S.”, “Dancing Queen” e “The Winner Takes It All” li tenevo stretti al cuore. Ma il tempo, si sa, cambia le cose.

E quando uscì l’antologia “Abba Gold”, 1992, non ebbi più ritegno: ero grande, adulto e vaccinato (sì, già a quel tempo), e potevo sdoganare senza problemi la mia passione per la band, che nel frattempo aveva già chiuso la carriera. E così quei cd fecero capolino sempre più spesso nei miei ascolti, nei momenti di relax o quando avevo voglia di un po’ di familiare leggerezza. Di quella buona.

Le loro canzoni del resto arrivavano subito, ma erano semplici solo in apparenza. Costruite con arte certosina e arrangiate con cura e pazienza. Le classiche parti vocali femminili, le melodie così tremendamente orecchiabili, i ritmi ballabili, le derive folk-pop, le ballate strappacuore.

Uniti a un gusto nordeuropeo ai confini del kitsch e della sdolcinatezza, ma irresistibile proprio per questo, con quei testi spesso melodrammatici e tristanzuoli, fra storie finite male, rapporti in crisi, delusioni e rimpianti, che riflettevano la vita e le relazioni dei quattro svedesi.

Per loro, io che odio i musical, sono andato a teatro un paio di volte a vedere “Mamma mia!”. Mica per la storia e i balletti, ma per le canzoni. E ci ho portato pure mia mamma ottantenne, che ha molto gradito.

Immaginate perciò la sorpresa, lo scorso agosto, a sapere della reunion, divisa in due momenti: un nuovo disco, “Voyage”, il 5 novembre (ieri), e uno show iper-tecnologico il prossimo anno con gli “Abbatars”, avatar digitali dei nostri quattro eroi, di cui ancora ho capito poco.

Ma intanto, è arrivato l’album, che è una specie di ritorno al futuro. Nel senso che sembra uscito 40 anni fa, più o meno quando gli Abba chiusero i battenti. Un effetto un po’ straniante, da macchina del tempo.

Le ballatone pompose, le voci ben impostate, le carezze melodiche, le marcette folk, qualche accelerata dance. Persino il tocco kitsch di una (micidiale) nenia natalizia, il momento più basso.

Semmai è cambiato il tono dei testi: le parole sono sempre semplici ed efficaci, in un inglese che saprebbe tradurre anche un bambino, ma con un risvolto più meditabondo, specchio dell’età matura raggiunta (oggi sono tutti ultrasettantenni) e delle traversie vissute strada facendo.

Non è un brutto disco, per carità, anche se mi pare manchi un pezzo killer all’altezza dei classici. Ma ascoltandolo m’è venuta addosso un po’ di malinconia. Mi ha ricordato che sono (più) vecchio e (più) stanco.

Forse non proprio quello di cui avevo bisogno.

Ciò non toglie che, molto probabilmente, lo ascolterò e riascolterò più volte, attendendo con curiosità lo spettacolo cibernetico di cui sopra.

E chissà, magari gli Abba ci traghetteranno anche nel futuro.

Coldplay, i più “amati” dalla critica

E ' uscito "Music Of The Spheres", il nuovo album dei Coldplay. Chris Martin e soci vanno per la loro strada pop alla faccia di critici e giudizi negativi.

Mi diverte leggere le recensioni sui dischi dei Coldplay, da sempre per vari motivi maltrattati dalla stampa. E anche sull’ultimo “Music Of The Spheres” ne ho trovate di pepate, col critico di turno che argomenta per filo e per segno perché il disco fa schifo (o giù di lì).

Un piccolo capolavoro è il finale sentenzioso di “The Guardian”, che recita più o meno così: “Chissà: magari funzionerà, per lo meno dal punto di vista commerciale. Ma ci devono essere modi più dignitosi per rimanere in vetta”. Una sintesi al curaro, venata di sottile acrimonia (e due stellette su cinque di voto).

Che poi, a dirla tutta, Chris Martin e soci un po’ se la vanno a cercare. Perché l’album in questione, il nono della loro storia, è abbastanza indifendibile fra ambientazioni da fantascienza, elettropop radiofonico (ma anche da discoteca), melodie risapute e testi che inneggiano all’amore universale.

Per dirla in poche parole: una “paraculata”, ma confezionata e veicolata alla grande. Con ampie strizzate d’occhio al pubblico generalista, come confermano i duetti con Selena Gomez e i sudcoreani BTS.

Credo che funzionerà, come funzioneranno i live negli stadi del prossimo anno. Alla faccia dei giudizi del “The Guardian” e dei “modi più dignitosi di rimanere in vetta” di cui parla.

Tanto i critici, ormai, non li segue (quasi) più nessuno. Figurarsi i Coldplay.

Un’estate coi Beach Boys

Il prossimo 30 luglio uscirà in vari formati “Feel Flows: The Sunflower & Surf’s Up Sessions 1969-1971”, cofanettodei Beach Boys.

Ci si potrebbe passare tutta l’estate. Perché questa “nuova” uscita dei Beach Boys è ottima e abbondante, in pratica 135 canzoni.

Il prossimo 27 agosto uscirà in vari formati “Feel Flows: The Sunflower & Surf’s Up Sessions 1969-1971”, cofanetto che comprende versioni rimasterizzate di album di culto come “Sunflower” e “Surf’s Up”, e ben 108 tracce inedite fra registrazioni dal vivo, radio promo, versioni demo, strumentali, alternate e a cappella. Per chi ama il genere, una goduria.

Siamo nel periodo post “Pet Sounds”, ovvero i Beach Boys della maturità, meno spensieratezza surf e più riflessioni esistenziali. Uno dei momenti migliori di Brian Wilson e soci, al di là del successo commerciale.

L’ascolto di questi brani mette addosso un misto di gioia, nostalgia, piacere ed emozione. L’elenco dei gioiellini in scaletta è lungo e invitante: “Forever”, “Surf’s Up”, “Til I Die”, “Our Sweet Love”, “This Whole World” e molti altri.

Il miglior pop di sempre (o giù di lì). E, poi, che estate sarebbe senza i “ragazzi di spiaggia”?

« Articoli meno recenti