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Tag: successo

C’è ancora domani

Italia, 2023. Drammatico, 118′. Regia di Paola Cortellesi. Con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli.

E’ stato il film italiano del 2023. L’ho visto a bocce ferme, lasciando sedimentare i commenti ed evitando i fiumi di recensioni. Mi è piaciuto. Al di là del più che condivisibile messaggio femminile-femminista, ne ho apprezzato la costruzione, la messa in scena e l’originalità. Tra citazioni neorealiste, una colonna sonora (volutamente) fuori contesto e un cast azzeccato, emerge forte la voglia matta di un mondo più civile e impegnato, come nella canzone di Daniele Silvestri della scena finale. Il fatto che abbia avuto grande successo è, nel suo piccolo, un segno di speranza per un cambiamento.

La felicità degli altri

"La felicità degli altri", recensione film su L'angolo del cinefilo per mannaggiallamusica.it, il blog di Diego Perugini.

Francia, 2020. Commedia, 104′. Regia di Daniel Cohen. Con Bérénice Bejo, Vincent Cassel, François Damiens, Florence Foresti.

Cosa accadrebbe se uno dei vostri più cari amici diventasse all’improvviso un personaggio di successo? Se lo chiede questa pungente commedia, che racconta la difficoltà di accettare, appunto, la felicità degli altri. Film di attori e di dialoghi, con qualche forzatura (il personaggio della Foresti sfiora il grottesco) ma intrigante, fra momenti comici e altri più drammatici, invidie malcelate e goffi tentativi di emulazione.

Tutti pazzi (o quasi) per i Måneskin

Tutti pazzi per i Måneskin. La band, nel giro di poche stagioni, sta conquistando il mondo. Qual è il loro segreto? E quanto durerà? Il commento di Diego Perugini
Foto di FrancisDelacroix

Se qualcuno un anno fa mi avesse detto che i Måneskin avrebbero aperto un concerto degli Stones negli Usa, gli avrei riso in faccia. O risposto sulla falsariga del surreale dialogo di “Ritorno al futuro”: “Ronald Regan presidente d’America? E il vice chi sarebbe: Jerry Lewis?!”.

Quindi avrei rilanciato con una cosa tipo: “E allora Ultimo che fa: il supporter di Paul McCartney a Londra?!”. E via sghignazzando.

Battute a parte, è tutto vero. I quattro ragazzacci romani apriranno per Jagger e soci, il 6 novembre a Las Vegas. Fatico ancora a crederci. E’ l’ennesimo colpo di teatro di questi tempi stranissimi, in cui può accadere tutto e di tutto.

Sul web e sui social la notizia ovviamente ha fatto subito furore, provocando l’ennesimo dibattito fra apocalittici e integrati sulla giovane fortunata band. Ma perché i Måneskin hanno tanto successo? Difficile spiegarlo, forse impossibile. Comunque, ci provo.

Cominciamo col dire che i quattro hanno stile, un’immagine forte, vincente, sexy, trasgressiva ma non troppo, colorata e ironica. Sanno stare su un palco, sanno come si coinvolge la gente. Amano mischiare le carte, scambiarsi gli abiti, spogliarsi, giocare con le identità sessuali. E tutto questo oggi funziona alla grande.

Poi propongono un (pop) rock semplice e caciarone, molto orecchiabile ed elementare, figlio di tante gloriose stagioni del passato, e ne ripropongono schemi, atteggiamenti, pose, stereotipi e look con disinvoltura. Sanno di copiare. Ma lo fanno benissimo, con furbizia e spavalderia.

Così i più giovani scoprono e apprezzano, chi ha qualche anno di più sul groppone riscopre e si lascia trascinare nel vortice. Anche quando, a dirla tutta, non è niente di speciale: la loro cover di “Beggin’”, per esempio, è abbastanza modesta, eppure piace tantissimo.

In più hanno dalla loro un team professionale che sa il fatto suo su questioni di marketing, linguaggio televisivo e non solo. La velocità del web e la potenza dei social hanno amplificato il fenomeno portandolo in fretta sul tetto del mondo. Come sanno anche i sassi, un tempo per andare oltre i confini nazionali ci mettevi una vita, oggi è tutto molto più veloce. Nel bene e nel male.

E, poi, aggiungetevi il fatto che vengono dall’Italia, in un anno in cui il nostro Paese per qualche strana combinazione astrale ha rialzato la schiena, ha vinto gli Europei di calcio e sorpreso in positivo alle Olimpiadi, ed è tornato il posto “cool” di un tempo, dopo le mazzate della pandemia.

Vengono dall’Italia, però non fanno il solito pop melodico e non sono sempre in tiro, ma suonano rock e si vestono come le star del glam anni 70. Quindi, sono una novità. E incuriosiscono.


Last but not least, c’è sempre quel lato insondabile del successo, l’essere nel posto giusto al momento giusto, il mistero che ti porta dal nulla al numero uno. I Måneskin hanno bruciato in poco tempo una serie di incredibili tappe, neanche fossimo in un film.

Vittoria a Sanremo, poi all’Eurovision, il duetto con l’icona Iggy Pop, l’ospitata da Jimmy Fallon, i concerti negli Usa e, tra breve, l’opening per gli Stones, più le nomination agli Mtv EMAs 2021 e agli American Music Awards. Mentre il tour 2022 è già ampiamente sold out.

Il tutto con una lunga serie di endorsement eccellenti e un’eccitata fan base dalla crescita esponenziale, che raccoglie gente di tutte le età. In Italia ormai sono visti come quasi degli eroi, dei connazionali che tengono alto il nome del nostro Paese nel mondo, forse degli apripista per altri artisti nostrani che verranno. E, visto come vanno le cose, non è detto che per loro non arrivi qualche riconoscimento istituzionale.

Ve lo immaginate? I Måneskin Cavalieri del Lavoro premiati dal presidente Mattarella. In questo pazzo pazzo pazzo mondo potrebbe accadere anche questo.

Quanto durerà? Difficile dirlo in una società che innalza e poi dimentica i suoi idoli in un batter di ciglia. Ma loro, intanto, si godono il momento magico, il sogno diventato realtà, la favola folle dei nostri tempi.

E ai detrattori (ormai una minoranza) non resta che arrendersi all’evidenza, gettare la spugna, farsene una ragione.

O seguire il sempreverde motto del Maurizio Ferrini di arboriana memoria: “Non capisco, ma mi adeguo”.

“Judy”, un film sul successo. E i suoi drammi

di Diego Perugini

In uscita "Judy", il biopic su Judy Garland con Renée Zellweger, superfavorita all’Oscar. Una biografia, ma anche una riflessione sulla "pericolosità" del successo.
“Judy”, locandina del film

Ho visto l’anteprima di “Judy”, il biopic su Judy Garland con Renée Zellweger, superfavorita all’Oscar. A dire il vero, il film non m’è piaciuto granché. Un po’ noioso e convenzionale, melodrammatico e parecchio triste. Ma, del resto, la sventurata storia della grande artista certo non è all’insegna dell’ottimismo più sfrenato.

La visione, semmai, ti induce a delle riflessioni su un elemento assai comune anche alle vicende del nostro pop: la “pericolosità” del successo. Qualcosa che ti porta alle stelle, ma può anche stritolarti, allontanarti dagli affetti più cari, ridurti a uno straccio e condurti all’autodistruzione.

“Judy” racconta questa discesa agli inferi, in realtà iniziata già agli esordi di bambina prodigio privata delle piccole grandi gioie del quotidiano (anche il semplice mangiarsi un hamburger) e costretta a mille rinunce nel nome del successo. Col corollario di tante pasticche per ovviare alle mancanze.

M’è venuta in mente Amy Winehouse, ma anche tanti altri che non sono stati capaci di “gestire” lo stress da successo, le pressioni e le rinunce. Tutte cose che a noi comuni mortali paiono così lontane, assurde. E che, invece, ritroviamo sempre più spesso nell’intimo di molti artisti.

C’è chi si ferma e si prende una pausa salutare, c’è chi sfoga le sue ansie nella musica stessa, ma c’è anche chi non ce la fa e si lascia andare. Come Judy. E tanti altri che portiamo nel cuore.

Ultimo, hai voluto la bicicletta? E, allora, pedala!

di Diego Perugini

Ultimo, "Colpa delle favole", cover
Ultimo, “Colpa delle favole”

Confesso di essermi un po’ infastidito ascoltando il nuovo cd di Ultimo, “Colpa delle favole”. E ci credo, ironizzeranno i detrattori più maliziosi. In realtà non perché le canzoni fossero così brutte, in fondo trattasi di buone ballate nel solco di una lunga tradizione pop, ma per il costante clima da sfogo lamentoso dei testi. Perché quasi tutto l’album ruota intorno a un concetto: Ultimo ha raggiunto il sogno, cioè il successo, che però non è così tutto rose e fiori come s’aspettava.

La favola, insomma, mostra un’altra faccia. Quella di dover convivere con gli aspetti meno piacevoli e meno artistici del successo, dal dividere tempo e luogo con “gente in cravatta” all’invasione della propria privacy. E, allora, giù geremiadi assortite su bel tempo che fu, quando stava con gli amici e aveva una vita normale, sognando magari di volare via dai casini e dallo stress del quotidiano.

Mi sono detto: ma guarda questo, a 23 anni è ricco, famoso, riempie i palazzetti, le ragazze gli corrono dietro e lui si lamenta se qualcuno gli disturba il pranzo per un selfie. Pensa, allora, a chi sta male davvero, il lavoro non ce l’ha o viene sfruttato. O anche chi, nel nostro piccolo di freelance, si sbatte per una decina di euro (se va bene) a pezzo.

Ultimo, "Colpa delle favole", ritratto
Ultimo, “Colpa delle favole”

Tutte cose che ho pensato d’istinto, a rischio di qualunquismo. Poi, riflettendo con più calma, sono tornato alla logica conclusione che tutto è relativo e ognuno ha le sue rogne, grandi o piccole. E che Ultimo, in fondo, ha tutto il diritto di propinarci le sue paturnie in musica. Piacciano o meno.

Ho cercato di capirne di più nel corso di una breve intervista e il ragazzo m’è parso sincero. M’ha raccontato a voce i suoi dubbi, le sue fragilità, il suo tormento. Sa che, se vuole andare avanti, deve imparare a conviverci. A un certo punto mi dice: “Devo prendere il pacchetto completo, ed è giusto così. Il successo è arrivato da poco, devo abituarmi, ci sto provando, non è facile. Però c’è chi sta peggio. E in confronto ad altri lavori, quel che mi viene chiesto è accettabilissimo. Anche se non mi piace”.

Insomma, un primo passo verso la maturità, la crescita personale, l’accettazione di quel “pacchetto completo” che è il successo, ma anche la vita coi suoi alti e bassi e i suoi inevitabili compromessi. A noi, quando ci si perdeva in inutili capricci, veniva ripetuto il celebre motto: “Hai voluto la bicicletta? E adesso pedala!”. Capito, Ultimo? Daje.