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Califano e Bob Marley, quando il biopic non convince

"Bob Marley - One Love", il biopic sulla leggenda del reggae, dal 22 nei cinema. Un commento di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Per combinazione ho visto negli stessi giorni “Califano” e “Bob Marley – One Love”. Due prodotti diversi, il primo per la tv (lo trovate su RaiPlay) e il secondo per il cinema (sarà nelle sale dal 22).

Due film biografici ovviamente differenti, vista la peculiarità dei protagonisti, accomunati però dalla stessa sensazione finale. La delusione.
O, per dirla con l’ultima vincitrice di Sanremo, la noia.

Il biopic (brutta parola, ma tant’è) sul “Califfo” mostra i tratti inequivocabili della fiction, nel bene e nel male. Ha quel ritmo lì, inutile cercare guizzi di genialità.

E, come capita spesso, resta in superficie, non approfondisce, restituisce un ritratto parziale di quell’uomo controverso e contraddittorio che era l’artista romano.

I più esperti vi hanno poi trovato errori grossolani, che gli autori hanno giustificato nelle note sui titoli di coda come la classica licenza poetica. Vabbè.

Ciò non toglie che la visione, tutto sommato, risulti comunque gradevole, se non si è troppo esigenti. E Leo Gassman nei panni del “Califfo” se la cava. Forse troppo bellino e poco stropicciato per essere veramente credibile, però bravo e volenteroso.

Leo Gasman interpreta il "Califfo" nella fiction tv Rai "Califano". Il commento di Diego Perugini per mannaggiallamusica.it

Il film su Bob Marley (una produzione di famiglia col figlio Ziggy in prima fila), forse per lo sforzo di essersi alzati dal divano di casa per andare al cinema, delude persino di più.

Si parte dal tentativo di omicidio nel dicembre 1976 a Kingston, per poi soffermarsi sul soggiorno in Inghilterra e chiudere il cerchio col ritorno in Giamaica per il One Love Peace Concert nell’aprile 1978.

In un’ora e tre quarti si prova a raccontarne la vicenda mescolando un po’ di tutto. Dalla religione (il rastafarianesimo) al messaggio di amore e unità, dalla creazione musicale alla politica giamaicana, dai rapporti coi discografici a quelli, più intimi, con la moglie Rita, dai ricordi visionari di un drammatico passato all’uso quotidiano del “fumo”. E molto altro ancora.

Come si usa dire, troppa carne al fuoco. Così si finisce con fare confusione o, peggio, scivolare nell’agiografia e nello stereotipo.

La regia è scolastica e lo stesso protagonista, il pur bravo Kingsley Ben-Adir, risulta un Marley ingentilito e mai veramente partecipato. Il meglio, come capita in questi casi, sono le canzoni. Quelle sì, immortali.

Più in generale, non è la prima volta che i biopic lasciano con l’amaro in bocca. Perché, oggettivamente, non è facile mettere in scena la vita, spesso complessa, di personaggi straordinari. E perché, il più delle volte, si sceglie una via parziale e sommaria, operando scelte discutibili.

La mia idea è che bisogna prenderli per quel che sono.

Cioè, salvo rare eccezioni, dei prodotti commerciali creati per un pubblico più vasto possibile, interessato più al lato umano che a quello artistico.

Una platea che del protagonista ha spesso solo un’infarinatura e non sta a menarsela troppo con dettagli, approfondimenti e verità storica, come facciamo noi addetti ai lavori.

Chi cerca qualcosa in più, insomma, dovrebbe semmai rivolgersi ai documentari. Sempre che siano fatti bene. E anche qui, soprattutto in casa nostra, non mancano le delusioni. Ma questo è un altro discorso ancora. Che, prima o poi, affronteremo.

Metti una sera con “The Voice Senior”

Confesso che mi piace indugiare ogni tanto su “The Voice Senior”, il programma del venerdì su RaiUno. Vederlo dall’inizio sarebbe troppo, però un po’ di zapping a fine serata me lo concedo volentieri. Non so perché, ma mi rilassa, mi incuriosisce. Mi intenerisce, forse.

Chiaro che delle schermaglie dei big in giuria poco me ne cale, seguo invece con (relativa) attenzione le storie di chi va sul palco e affronta il giudizio a sessanta, settant’anni e oltre. Ogni concorrente racconta la sua e poi si butta.

Sono vicende spesso molto simili fra loro. C’è la vecchia gloria che vuole rinverdire i fasti di un tempo; c’è chi è stato nelle retrovie della musica per anni e reclama i suoi 15 minuti di celebrità. C’è chi, per gli strani corsi della vita, ha dovuto rinunciare al proprio sogno e ora ha l’occasione di riprenderselo.

In tutti c’è la voglia di rimettersi in gioco, di sentirsi ancora qualcuno, di farsi valere. E qui scatta implacabile nel pubblico (immagino un po’ âgée anche lui) il meccanismo dell’identificazione, quell’irresistibile desiderio di riscatto e rivalsa che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita.

Alcuni cantano anche bene, altri così così. Molti vengono accettati in gara, altri tornano a casa comunque contenti “per la bella esperienza”.

Non c’è sangue, non c’è rissa, ma un generale “volemose bene” che mette addosso a chi guarda una certa distaccata tranquillità.

Proprio quella che ci vuole prima di andare a dormire.

De André in tv, un’occasione sprecata

di Diego Perugini

_Foto Reinhold Kohl-Fondazione Fabrizio De André
Foto Reinhold Kohl-Fondazione Fabrizio De André

L’altra sera, come tanti, mi sono messo a guardare l’omaggio a Fabrizio De André su RaiUno. Primo capitolo di una trilogia che poi affronterà Dalla e Battisti. Avevo molti dubbi, l’unico filo di speranza era affidato a Enrico Ruggeri, uno dei conduttori, del quale ho stima incondizionata.

Non è andata bene. E’ stato uno spettacolo lungo, sfilacciato e farraginoso, con cantanti e presentatori spesso impacciati, scelte artistiche discutibili, arrangiamenti moderni e sopra le righe. Con momenti tragicomici come la Vanoni che s’incazza perché non riesce a leggere dal “gobbo”.

Il “gobbo”, appunto. Sinceramente mi sfugge, per esempio, come tanti professionisti non riescano a imparare una canzone a memoria, tanto più classici famosi come quelli di De André, che peraltro già dovrebbero avere ben assimilato nel tempo. Vedere gli sguardi verso l’alto alla ricerca della strofa da cantare non è il massimo, anzi.

Lo stesso Ruggeri, colpito da un vistoso calo di voce, non ha retto l’arduo cimento. Le cose da salvare? La storica Pfm, Morgan (che, almeno, la materia la conosce bene), Mauro Pagani in collegamento da Genova con “Crêuza de mä” e poco altro.

Lo so, costruire uno spettacolo intelligente su De André in prima serata, su RaiUno, cercando di incrociare i gusti di un pubblico generalista, non è facile. Ma così si peggiorano le cose. E, allora, è meglio evitare.

E’ parso uno spettacolo improvvisato, messo in piedi frettolosamente, senza un vero costrutto. Spiace. E, forse, anche Dori Ghezzi dovrebbe vagliare meglio le proposte. Inevitabili, quindi, le critiche anche pesanti sui social, incluse quelle del figlio Cristiano. Becere, invece, quelle rivolte al presunto credo politico dello stesso Ruggeri.

Non oso pensare alle prossime puntate su Dalla e Battisti, ma per fortuna non mancano le alternative. Un concerto, una partita di calcio, un buon film o un buon libro.