Per combinazione ho visto negli stessi giorni “Califano” e “Bob Marley – One Love”. Due prodotti diversi, il primo per la tv (lo trovate su RaiPlay) e il secondo per il cinema (sarà nelle sale dal 22).
Due film biografici ovviamente differenti, vista la peculiarità dei protagonisti, accomunati però dalla stessa sensazione finale. La delusione.
O, per dirla con l’ultima vincitrice di Sanremo, la noia.
Il biopic (brutta parola, ma tant’è) sul “Califfo” mostra i tratti inequivocabili della fiction, nel bene e nel male. Ha quel ritmo lì, inutile cercare guizzi di genialità.
E, come capita spesso, resta in superficie, non approfondisce, restituisce un ritratto parziale di quell’uomo controverso e contraddittorio che era l’artista romano.
I più esperti vi hanno poi trovato errori grossolani, che gli autori hanno giustificato nelle note sui titoli di coda come la classica licenza poetica. Vabbè.
Ciò non toglie che la visione, tutto sommato, risulti comunque gradevole, se non si è troppo esigenti. E Leo Gassman nei panni del “Califfo” se la cava. Forse troppo bellino e poco stropicciato per essere veramente credibile, però bravo e volenteroso.
Il film su Bob Marley (una produzione di famiglia col figlio Ziggy in prima fila), forse per lo sforzo di essersi alzati dal divano di casa per andare al cinema, delude persino di più.
Si parte dal tentativo di omicidio nel dicembre 1976 a Kingston, per poi soffermarsi sul soggiorno in Inghilterra e chiudere il cerchio col ritorno in Giamaica per il One Love Peace Concert nell’aprile 1978.
In un’ora e tre quarti si prova a raccontarne la vicenda mescolando un po’ di tutto. Dalla religione (il rastafarianesimo) al messaggio di amore e unità, dalla creazione musicale alla politica giamaicana, dai rapporti coi discografici a quelli, più intimi, con la moglie Rita, dai ricordi visionari di un drammatico passato all’uso quotidiano del “fumo”. E molto altro ancora.
Come si usa dire, troppa carne al fuoco. Così si finisce con fare confusione o, peggio, scivolare nell’agiografia e nello stereotipo.
La regia è scolastica e lo stesso protagonista, il pur bravo Kingsley Ben-Adir, risulta un Marley ingentilito e mai veramente partecipato. Il meglio, come capita in questi casi, sono le canzoni. Quelle sì, immortali.
Più in generale, non è la prima volta che i biopic lasciano con l’amaro in bocca. Perché, oggettivamente, non è facile mettere in scena la vita, spesso complessa, di personaggi straordinari. E perché, il più delle volte, si sceglie una via parziale e sommaria, operando scelte discutibili.
La mia idea è che bisogna prenderli per quel che sono.
Cioè, salvo rare eccezioni, dei prodotti commerciali creati per un pubblico più vasto possibile, interessato più al lato umano che a quello artistico.
Una platea che del protagonista ha spesso solo un’infarinatura e non sta a menarsela troppo con dettagli, approfondimenti e verità storica, come facciamo noi addetti ai lavori.
Chi cerca qualcosa in più, insomma, dovrebbe semmai rivolgersi ai documentari. Sempre che siano fatti bene. E anche qui, soprattutto in casa nostra, non mancano le delusioni. Ma questo è un altro discorso ancora. Che, prima o poi, affronteremo.