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Per una volta lo posso dire: c’ero anch’io. Perché quello di ieri sera è stato un evento nel vero senso della parola.

La prima volta di un artista pop (per modo di dire) alla Scala, tempio della lirica meneghino, con annesse risibili polemiche da parte dei soliti retrogradi bacchettoni. Come scrisse qualcuno di importante, non ti curar di loro ma guarda e passa.

E così s’è fatto, applaudendo di gusto il grande vecchio Paolo Conte su quel palco storico, in un passaggio che pare quasi un premio alla carriera.

Teatro strapieno, naturalmente, di vip e gente comune. Con tv e cronisti a caccia di dichiarazioni, a ricalcare il cliché mondano delle prime. Abiti eleganti, papillon e pailettes, ma anche semplici jeans e maglioncini.

E lassù in galleria, zona popolare di loggione e loggionisti, si son visti anche magliette e maniche corte, perché i posti sono strettissimi e fa un caldo boia.

L’unico dress code, insomma, pare quello dell’amore per la musica evocativa e immaginifica dell’artista astigiano.

Conte dispiega per l’ennesima volta il suo “spettacolo d’arte varia”, seduto al pianoforte o in piedi davanti al microfono, con la consueta corte di musici eccelsi.

Non si lascia intimidire da cotanto palco, indossa il solito abito scuro con maglietta in tinta, degli occhiali da sole e, quando ci vuole, non disdegna di suonare il suo “pernacchiante” kazoo.

Ci sono anche telecamere e ammennicoli tecnologici, che lasciano presagire film e album dal vivo in un futuro prossimo venturo.

La scaletta è già lì pronta ad uso e consumo di tutti, in una tipica locandina scaligera, come fossimo lì a vedere l’Aida o le Nozze di Figaro.

Invece c’è questo 86enne dalla voce roca e bassa, che dispensa i suoi classici come fossero bignè. A voler proprio trovare il pelo nell’uovo, potremmo dire che è un po’ il “solito” (e bellissimo) concerto che da qualche tempo il Nostro sta portando in giro per il mondo. Ma, per fortuna, con qualche piccola variazione sul tema.

E, come al solito, niente commenti o aneddoti, solo la presentazione dei musicisti, più qualche inchino di cortesia e ironiche mosse da direttore d’orchestra.

paolo conte_lascala_@stebrovetto

Sfilano “Aguaplano”, “Sotto le stelle del jazz”, una bellissima “Milonga”. La gente applaude, talvolta sfida la sacralità scaligera con qualche smartphone in azione (incluso qualche squillo inopportuno), tentativi di applausi a ritmo, qualche urlo di incitamento o ringraziamento.

Il meglio è quando arrivano le perle più rare: il ripescaggio dell’antica “Uomo camion”, struggente tocco di romanticismo virile, e “La frase”, gioiellino minore da un disco favoloso come “Appunti di viaggio”.

Fuori scaletta, da solo al pianoforte, ecco “Dal loggione”, quanto mai opportuna vista la sede: storia di un amore clandestino e impossibile sullo sfondo di un teatro comunale. Lei bellissima in platea col marito, lui dal loggione che la mira adorante. E poi: “Viva la musica che ti va/ Fin dentro all’anima che ti va”. Da brividi.

Il secondo tempo viaggia sul sicuro, con i classici più classici: su “Gli impermeabili” parte un’ovazione a scena aperta, così come per “Via con me” e la sempre mirabile “Max” (che però continuo a preferire nella vecchia versione con più energia e più fisarmoniche).

In “Diavolo Rosso” si scatena la band, mentre Conte seduto al piano si volta e si gode i pirotecnici virtuosismi dei suoi strumentisti. Su “Il maestro”, testo leggiadro e musica esaltante, tre coriste fanno il controcanto.

Si chiude il sipario. Il bis, come da copione, è la riproposizione di “Via con me”, col pubblico invitato con un gesto a cantare il ritornello. Nessuno se lo fa ripetere.

Si finisce così, col Piermarini a intonare “It’s wonderful, it’s wonderful…” col sorriso sulle labbra.

Alla faccia di chi voleva che questa serata non s’avesse da fare.